Un muro di pietra

Non puoi andare in un locale qualsiasi e ballare con chi ti piace. Bisogna essere cauti nel mostrarsi interessati ad un’altra persona, soprattutto se quest’altra persona è del tuo stesso sesso. Nel 1969 non sta bene. E’ un comportamento a dir poco deplorevole.

Questa è l’aria che si respira. E di tuo padre e di tua madre, lacerati dal senso di colpa per averti costretto ad andare via di casa pur senza mettere in dubbio le loro ragioni, di loro, dicevo, non ne sai più nulla da mesi.

L’unica speranza è muoverti nel buio, indossare un’identità diversa ogni giorno per dare nell’occhio, per far si che quel tuo cuore isolato rimanga celato a chiunque.

E se esistesse un luogo dove, anche solo per qualche ora, puoi vivere come se tutto ciò non fosse mai accaduto; un luogo dove questo tuo cuore possa rifocillarsi e abbandonarsi per un attimo alla sua natura, senza dubbio è lì che ti rifugeresti.

Pazienza se, il più delle volte, il tuo amore non sarà altro che torbida prestazione; pazienza se di contorno ci saranno storie strazianti di profonde solitudini, di droga o di emarginazione.

A volte anche una boccata di aria puzzolente può essere un respiro.

Quante volte, bevendo un cocktail annacquato che ondeggia in un putrido bicchiere, hai immaginato di essere altrove, completamente libero e ad un passo dall’amore vero? Poi apri gli occhi e ti rendi conto che quella libertà ha preso le sembianze di un benpensante facoltoso, lo stesso che di giorno ti condanna e di notte ti cerca, sicuro di poter comprare in saldo il tuo corpo e il silenzio della società intera, con la calma ostentata di chi seppellisce i suoi instinti repressi.

E l’amore vero tanto agognato prende la forma di un letto caldo dove passare la nottata.

Non ci sono molte alternative. Qui i desideri devono fare di continuo i conti con la polizia, da una parte, e con la mafia, dall’altra.

Provi a scorgere l’ironia della cosa: anche lì, in quel posto, si vive come se fossi la metà di qualcos’altro, per metà giochi in casa e per metà sei l’avversario. Pensi che sia un destino beffardo questo, essere qualificato come “la metà di qualcos’altro” ed a vivere con questo fregio ogni ora della tua vita. Ultimamente, pare, anche alcune ore della tua immaginazione.

La polizia è sempre qui.

Dicono che non dobbiamo bere, ma è solo un pretesto, lo sappiamo bene. In realtà vogliono i nostri sogni, oppure sognano di vederci sparire, non saprei.
Per non farci trovare siamo pronti a tutto.


Sappiamo che il segnale è la luce. Appena si accende, ti stacchi in fretta dal corpo che ti sta concedendo un sognante ballo. Pena l’arresto, la repressione forzata. Dopo un po’ ti abitui a tal punto, che non riusciresti più a ballare in nessun’altra stanza illuminata del mondo. Sembra che dove ci sia luce non potresti esserci tu. Tu sei il buio, l’oscuro, l’indefinito, l’inafferabile.
E solo lì ti è permesso stare.

Credo ci sia un limite massimo di negazioni che un animo umano possa sopportare. Una soglia oltre la quale tutto vacilla ed esplode. Penso che quella soglia sia stata superata il

27 giugno del 1969.

L’ennesima irruzione, l’ennesima repressione, l’ennesima dimostrazione di forza ingiustificata.
Non ne puoi più. Cos’hai nient’altro da perdere, ti chiedi. Non possono toglierti anche il buio.
Il destino beffardo quella sera si era distratto. Ma noi eravamo ben attenti.

Per un momento, tutto cambiò. Eravamo esausti e in quell’istante decidemmo che era venuto il momento di far esplodere quella bomba.
A dire il vero, iniziò in maniera quasi inaspettata, inconsapevole, ma allo stesso modo crebbe e divenne il più alto e doloroso momento di consapevolezza che riuscimmo a manifestare apertamente in quegli anni.

Mentre molti di noi venivano trascinati fuori, altri rimasero dentro al locale con gli sbirri. Fuori si radunavano altri ragazzi come noi che come noi, volevano uscire dal buio e volevano riprendersi il posto che gli spettava nella luce. A costo di usare la forza.

Quelli che seguirono furono cinque giorni di fuoco. Ci fu la guerriglia. La polizia in tenuta antisommossa. Una raffica di arresti. Un striscia di doloroso orgoglio.
Che prezzo ha la libertà? Che voce ha? A volte, come in quel caso, ha la voce rotta dalle urla di rivendicazione e dalla sofferenza a lungo ingoiata e mai definitivamente digerita.

Nei giorni seguenti fece quasi più scalpore il pensiero che delle “femminucce” fossero state in grado di tenere testa alle forze più dure dello stato. Ma a venire a galla, invece, era qualcosa che la società si ostinava a reprimere, una realtà solida e ben delineata.

Non potevamo permettere che tutto ciò finisse per l’ennesima volta classificato come “sporadico fenomeno da baraccone”. Le associazioni batterono subito sul ferro caldo, e decidemmo di ricordare il nostro orgoglio, di difendere quelli di noi che avevano lottato per questo in quelle cinque calde notti e nelle altre che seguirono.

L’anno dopo, il 27 giugno, eravamo di nuovo lì. In strada. Con la rabbia chiassosa e l’energia infuocata, a giurare a noi stessi ed agli altri che non saremmo mai più tornati nel buio.

Racconto ispirato ai moti di Stonewall del 26/27 giugno 1969.
Dedicato a chi fa della diversità un valore e non una condanna.


Testo: Ivo Guderzo
Copertina: Pigutin (@disegnoperchemipiace)
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