Talidomide: la storia, la tragedia, ed una lezione per il futuro – parte 3

La nascita della farmacovigilanza dopo il caso talidomide

La talidomide ha una struttura molto simile a quella dei barbiturici, senza condividerne gli stessi effetti collaterali. Se Marlyn Monroe avesse ingerito talidomide e non barbiturici, avrebbe potuto girare molti più film di quanti ce ne abbia lasciati. Riesce facile, quindi, immaginare il motivo per il quale questa molecola attirò sin da subito la curiosità dei dipendenti della Chemi-Grunental, azienda tedesca prima produttrice di questo farmaco.

La talidomide venne venduta con nomi commerciali diversi a seconda del paese di commercializzazione; ad esempio, nel Regno Unito fu distribuita come Distaval, in Europa Softenon, in Germania Contergan. Questa plurarità di nomi fu una delle ragioni che ostacolò l’immediato ritiro dal mercato di questo principio attivo, avvenuto nel 1961 nel Regno Unito e nel 1962 per il resto del mondo.

E’ proprio in questo periodo che nasce la moderna industria farmaceutica, ovvero quando nuovi metodi sintetici e nuovi processi di separazione e purificazione di miscele di composti hanno permesso l’ottenimento di differenti principi attivi con un’elevatissima purezza.

Tuttavia la regolamentazione e l’immissione sul mercato di questi nuovi prodotti era piuttosto facile data la mancanza di regole rigide, che è stato necessario introdurre dopo il caso Talidomide. Negli anni ’50 i regolamenti relativi alla somministrazione di farmaci sperimentali non erano così rigidi come al giorno d’oggi. Infatti, uno dei primi casi (se non il primo) di bambini nati con una malformazione da talidomide fu proprio il figlio di uno dei dipendenti della Chemi-Grunental, nato il 25 dicembre 1956 senza orecchie; il padre aveva portato dall’azienda il miracoloso farmaco contro le nausee da gravidanza della moglie.

In aggiunta a ciò, per l’approvazione di un farmaco, non erano necessari tutti i trial clinici che oggi sono obbligatori; i test venivano scelti ed eseguiti a discrezione del produttore. E’ proprio per questa serie di motivi che la talidomide ha permesso la nascita della moderna farmacovigilanza.

Volendo fare una piccola digressione ma allo stesso tempo un leggero parallelismo, da questo bisogno di regolamentare, sorvegliare e monitorare gli effetti delle sostanze chimiche e delle loro miscele immesse sul mercato che nel 2007 nasce l’ECHA (European Chemical Agency, Agenzia Europea delle sostanze Chimiche): il suo obiettivo, proprio come l’ente EMA (European Medical Agency, Agenzia Europea del Farmaco), è quello di tutelare la salute e lo stato dell’ambiente da eventuali effetti nocivi dell’uso di sostanze chimiche. A tal proposito, le varie aziende del settore devono produrre, e regolarmente aggiornare, fascicoli che raccolgono informazioni dettagliate su tali sostanze: si parte dalle composizioni strutturali, e si termina con dei test tossicologici. E credetemi quando dico che le aziende investono molte risorse in questo tipo di studi, lo vedo e lo faccio quasi tutti i giorni nella mia vita lavorativa.

Quando usiamo un qualsiasi prodotto immesso sul mercato, sia esso un farmaco, un prodotto per la detergenza o della cosmetica, possiamo quindi essere certi che il suo uso, per le finalità descritte dal produttore, è sicuro.

L’Europa vigila attentamente sulla nostra salute e sull’ambiente.

Nuovi usi per la talidomide

Dopo la scoperta dei suoi effetti dannosi, fu necessario aspettare 4 anni affinchè la talidomide venisse ritirata dal mercato, data che la sua diffusione in tutto il mondo con numerosi e diversi nomi commerciali; in Italia questo ritiro avvenne con un ulteriore ritardo rispetto agli altri paesi.

In seguito al suo ritiro, l’interesse generale verso questo farmaco si è quasi stoppata fino agli anni ’90, quando lo si è testato in diverse malattie.

Infatti è stato scoperto che solo uno dei due enantiomeri ha effetti teratogeni e mutageni, ed infatti il farmaco veniva venduto in forma di racemo, ovvero una miscela 50:50 dei due enantiomeri.

Come principio attivo, però, la talidomide non è mai stata messa nel cassetto in maniera definitiva, ma si sono cercate, fin da subito, altre patologie in cui essere utilizzata nella relativa terapia farmacologica. Nel 1964 fu utilizzata per la prima volta e con successo per il trattamento della lebbra; tuttavia l’FDA approvò la talidomide con questo scopo solo nel 1998. Nel 1979 la talidomide fu usata per il trattamento della sindrome di Behçet e nel 1988 per la malattia del trapianto contro l’ospite. Il meccanismo di azione in queste malattie autoimmuni fu chiarito solo nel 1991.

A metà degli anni ’90 fu avanzata l’ipotesi dell’attività anti-angiogenica della talidomide, ovvero si ipotizzò che la talidomide potesse impedire la formazione di nuovi vasi sanguigni, inibendo di conseguenza la crescita di masse tumorali. In test clinici del 1997 fatti dall’università dell’Arkansas, ed in seguito confermati dalla Mayo Clinic., su un campione di 84 pazienti la talidomide si mostrò efficace nel 32%. Questo può sembrare in apparenza un dato di poco conto, ma così non è se si pensa che questa scoperta è stata l’unica in grado di apportare novità nel trattamento di mielomi, per esempio, in oltre 30 anni.3

Ad oggi, la talidomide viene utilizzata in totale sicurezza in patologie come la lebbra, mieloma multiplo, diversi tipi di patologie cancerose, morbo di Crohn, HIV ed altro.

Link ed approfondimenti

  • Their tools revolutionised the construction of molecules, The Royal Swedish Acedemy of Sciences, The Nobel Prize in Chemistry 2021, Popular Science Background.
  • Thalidomide-Induced Teratogenesis: History and Mechanisms, N. Vargesson, Birth Defects Research (Part C) 2015, 105, 140-156.
  • Thalidomide: A Review of Approved and Investigational Uses, S. J. Matthews, C. McCoy, Clinical Therapeutics, 2003, 25, 342-395.
  • The Thalidomide Disaster, Lessons from the Past, J. E. Ridings, Methods in Molecular Biology (book series), 2012, 947, 575-586.
  • Thalidomide: The Tragedy of Birth Defects and the Effective Treatment of Disease, J. H. Kim, A. R. Scialli, Toxicological Sciences 2011, 122, 1-6.
  • Thalidomide: Tragic Past and Promising Future, S. V. Rajkumar, Mayo Clin Proc. 2004, 79, 899-903.
  • Thalidomide-Induced Teratogenesis: History and Mechanisms, N. Vargesson, Birth Defects Research (Part C) 2015, 105, 140-156.

Autrice: Annarita Noschese
Editing: Francesco PennaNera

Talidomide: la storia, la tragedia, una lezione per il futuro – parte 2

La chimica della talidomide

La talidomide è un derivato della glutarrimide (a propria volta derivante dall’acido glutammico) e della ftalimmide.

Ci sono infinite possibilità di realizzare connessioni tra gli atomi; in alcuni casi è possibile creare molecole che sono immagini non sovrapponibili, proprio come le nostre mani. Queste due singole forme vengono dette enantiomeri: per la talidomide, la forma S(-) è responsabile dell’attività antitumorale, mentre la forma R(+) agisce come sedativo.

La talidomide si presenta come un solido cristallino bianco, che ha scarsa solubilità in solventi polari come acqua e metanolo.

La sua struttura è costituita da due anelli, detti eterociclici, in quanto il loro scheletro non è costituito solo da atomi di carbonio, ma anche da altri atomi, in questo caso parliamo di atomi di azoto. I legami tra i due anelli avviene grazie ad un atomo di azoto. La molecola presenta un centro stereogenico quaternario, cioè un carbonio legato a quattro tipi di sostituenti differenti, che a seconda della loro disposizione spaziale danno origine a molecole, solo apparentemente uguali, ma con proprietà differenti, come la capacità di cristallizzare in solventi differenti e di interagire in maniera diversa con la luce. Proprio per questa ultima capacità, per ogni centro stereogenico quaternario si ottengono due forme, dette D ed L (rispettivamente destrogiro e levogiro), o anche R ed S; quando il rapporto tra le due è di 1:1 siamo in presenza di una miscela racemica o racemo.

Come si creano le molecole?

Ogni molecola, sia essa semplice o complessa, può richiedere un certo numero di passaggi intermedi per il suo ottenimento a partire dai reagenti iniziali. Alcuni di questi passaggi richiedono un consumo di energia notevole, e pertanto possono essere molto difficili da realizzare. È necessario, allora, l’uso di un catalizzatore che, trovando una via alternativa, permette lo stesso passaggio sintetico, ma con una richiesta energetica notevolmente inferiore. L’energia richiesta per una reazione viene definita come energia di attivazione.

Il concetto di catalisi, ovvero di utilizzo di un catalizzatore, risale al 1835, quando il chimico svedese J. J. Berzelius fu il primo a definirlo come tale.

I catalizzatori dei processi biologici sono gli enzimi. Più in generale, possono essere usati sia metalli che molecole organiche (1860). In questo caso si parla di organocatalisi, ovvero dell’utilizzo di piccole molecole organiche, che oltre a carbonio ed idrogeno, possono contenere altri atomi, come azoto, zolfo o fosforo, ma non metalli.

La catalisi è in ambito chimico, biologico ed industriale un settore fondamentale, che ha permesso alla società intera di progredire. Nel tempo ci sono stati diversi premi Nobel dedicati a questa branca, uno di questi riguarda molto da vicino l’Italia, in quanto nel 1963 il premio Nobel per la Chimica fu conferito, in maniera congiunta, a K. Ziegler e G. Natta per lo studio di catalizzatori da usare nella sintesi di polimeri.

Nel campo della catalisi organica c’è un prima ed un dopo; questo confine è costituito dai lavori di MacMillan e List (allievo di Carlos F. Barbas III, professore di chimica che svolse gran parte della propria ricerca presso lo Scripps Research Institute in California), che hanno portato ad un significativo avanzamento nel settore, avanzamento che è valso la consegna del premio Nobel per la Chimica nel 2021.

Organocatalisi: la storia dietro un premio Nobel

Una delle abilità e capacità dei chimici è quella di creare nuovi legami tra atomi e molecole; per fare ciò in maniera più efficace possono essere usati dei catalizzatori, ovvero molecole che fungono da intermediari, abbassando l’energia totale richiesta dal processo di sintesi. List e MacMillan, che hanno ricevuto il premio Nobel per la Chimica nel 2021, hanno utilizzato molecole organiche per effettuare ciò, dando sviluppo alla branca dell’organocatalisi.

Con questa strategia è possibile creare nuove molecole in maniera più ecosostenibile, ma soprattutto si possono sintetizzare ed ottenere molecole asimmetriche.

Da un punto di vista storico, prima del 2000 venivano usati due tipi differenti di catalizzatori: enzimi e metalli.

Gli enzimi possono rientrare a pieno titolo tra gli organocatalizzatori. Negli anni 90, il gruppo di Carlos F. Barbas basato presso lo Scripps Research Institute in California del Sud iniziò ad ispirarsi a queste sostanze per ricercare nuovi catalizzatori sempre a base organica. Benjamin List ha lavorato come ricercatore post dottorato presso il laboratorio di Barbas, e da lui ha tratto ispirazione per i suoi lavori futuri.

Gli enzimi sono molecole molto complesse e pesanti, ma l’attività catalitica può essere attribuita in sostanza soltanto ad alcuni gruppi chimici presenti in essi. Ebbene, il passo in avanti fu fatto quando ci si focalizzò su questi specifici gruppi chimici piuttosto che su tutta la struttura enzimatica.

List tentò diverse vie e iniziò ad ottenere discreti risultati con la prolina, e utilizzò quest’ultima in una reazione chiamata reazione aldolica; inaspettatamente, quei primi esperimenti, fatti utilizzando condizioni blande, funzionarono.

Nello stesso periodo, MacMillan, dopo aver raggiunto l’Università di Berkeley da Harvard, iniziò a lavorare su un catalizzatore organico (ovvero molecola fatta da uno scheletro di base carbonio, e che può contenere atomi come ossigeno, azoto, zolfo e fosforo, oltre all’idrogeno; queste molecole vengono trovate facilmente in ambito biologico), detto ione imminio, caratterizzato dalla presenza di un atomo di azoto N. Questo catalizzatore venne applicato in una reazione diversa rispetto a quella usata da List, ovvero nella reazione di Diels-Alder, che permette di formare nuovi doppi legami.

A MacMillan si deve l’invenzione della parola Organocatalisi.

L’impatto sulla chimica della nascita di questa branca è facilmente intuibile con un semplice esempio. Prima della nascita dell’organocatalisi, la sintesi della stricnina, risalente al 1952, richiedeva 29 passaggi sintetici con un 0,0009% del materiale iniziale che andava a formare effettivamente il prodotto finale desiderato. Dopo la nascita dell’organocatalisi, la sintesi della stessa molecola poteva essere effettuata in 12 passaggi, con un’efficienza maggiore di circa 7000 volte.

L’idea dell’organocatalisi è semplice, così semplice che viene da chiedersi come mai la comunità scientifica non abbia avuto prima questa idea. Alcune volte le idee più semplici sono anche le più difficili da raggiungere perché si è pieni di preconcetti ed è difficile vedere la luce in fondo al tunnel.

Link ed approfondimenti

  • Thalidomide, M. E. Franks, G. R. Macpherson, W. D. Figg, The Lancet, 2004, 363, 1802-1811.
  • Thalidomide: A Review of Approved and Investigational Uses, S. J. Matthews, C. McCoy, Clinical Therapeutics, 2003, 25, 342-395.
  • Enamine and iminium ion-mediated organocatalysis, The Nobel Committee for Chemistry, Scientific Background on the Nobel Prize in Chemistry 2021.
  • Their tools revolutionised the construction of molecules, The Royal Swedish Acedemy of Sciences, The Nobel Prize in Chemistry 2021, Popular Science Background.

Talidomide: la storia, la tragedia, una lezione per il futuro – parte 1

Talidomide: la storia, la tragedia, una lezione per il futuro - parte 1

Premessa

Talidomite.

La prima volta che ho sentito pronunciare questa parola sarà stato nel 2011, durante una delle prime lezioni del corso universitario di Organocatalisi in programma per il primo semestre del secondo anno della mia laurea magistrale.

Un nome che nasconde un mondo vastissimo. La parola talidomide racchiude in sé una storia fatta di patologie mediche gravi, tanto dolore, ma anche grandi passi nel campo della medicina, della farmacologia, della farmacovigilanza, ed in ultimo, ma non meno importante, della chimica. La vicenda che sto per raccontarvi ha fatto da spartiacque e ha sensibilizzato, e continua a sensibilizzare, chimici con anni di esperienza ed in erba che forse contribuiranno alla sintesi di nuovi farmaci, e a sconfiggere e curare diverse patologie, migliorando la qualità della vita di tutti noi.

Dopo più di dieci anni, ritorno alle origini ed alla talidomide tramite l’ascolto casuale del podcast “Pharmakon”: ascolto che consiglio, perchè permette di capire, anche a chi non è del settore, tutti gli aspetti sopra citati che la talidomide porta con sé.

Personalmente ho colto l’occasione per riflettere ancora una volta sull’argomento, su alcuni concetti che sono alla base della chimica, fondamentali per la sintesi di farmaci, ma anche per capire come funziona la chimica all’interno del nostro corpo.

Piccola storia di un disastro imprevedibile

La talidomide è stata sintetizzata per la prima volta nel 1953 da un’azienda farmaceutica svizzera, la Ciba, e l’anno successivo dalla Chemie-Grünenthal. Questa molecola suscitò subito enormi interessi perché condivideva con i barbiturici gli effetti sedativi, ma non gli effetti collaterali (confusione, mal di gola, dolori muscolari, ecc).

Inoltre, all’epoca della sua scoperta, non fu possibile stabilire per la talidomide la cosiddetta “DL50” (dose letale, da somministrare in un’unica soluzione, necessaria ad uccidere il 50% della popolazione oggetto dello studio), dato invece ben noto per i cugini barbiturici.

Inizialmente la talidomide venne impiegata come sedativo e come antiemetico, e proprio per questi motivi venne prescritto alle donne in gravidanza allo scopo di combattere la nausea tipica del primo periodo della gestazione.

Qualche anno dopo l’immissione sul mercato, però, si scopre che la talidomide possiede effetti teratogeni, ovvero provoca danni all’embrione se viene assunto durante le prime fasi della gravidanza. Furono circa 10000 i bambini nati con malformazioni e neuropatie periferiche da talidomide, principalmente focomelie a carico di braccia, mani e/o piedi furono i principali effetti avversi osservati per questo principio attivo.

Tuttavia il numero appena citato potrebbe rappresentare una sottostima, in quanto non tiene conto di bambini morti dopo il parto o mai nati a causa di aborti (spontanei). Si può quindi affermare con certezza che non si conoscerà mai il numero esatto di vittime da talidomide.

In seguito venne osservato che gli effetti teratogeni si manifestano in seguito ad assunzione tra il 20° e 36° giorno dal concepimento, finestra temporale abbastanza precisa e ristretta in cui c’è un rapido sviluppo embrionale; inoltre, una singola pillola è sufficiente per provocare effetti teratogeni.

Tutto quello detto finora riguarda principalmente il continente europeo. Negli Stati Uniti la tragedia della talidomide fu evitata grazie alla dott. Frances Kelsey, farmacologa americana di origine canadese, membro del neonato ente americano per la sicurezza degli alimenti e dei farmaci FDA, che non approvò la domanda di accettazione del farmaco nel mercato americano statunitense a causa dei casi già presenti, ma non pienamente collegati all’assunzione di talidomide, di neuropatie periferiche, e per la mancanza di prove sufficienti, ma non richieste dalla legislazione vigente all’epoca, che ne attestassero la sicurezza in gravidanza.

Dopo numerosi studi, gli effetti teratogeni della talidomide vennero attribuiti alla sua struttura chimica, ovvero due differenti anelli uniti da un carbonio chirale, che è un carbonio legato a quattro differenti funzionalità chimiche. Nello specifico, l’anello a sei termini (esagono sulla destra nell’immagine sottostante) ha un carbonio legato ad un atomo di azoto N e ad altri due carboni C, legati a propria volta a due atomi di carbonio differenti. Il legame con l’atomo di azoto sull’anello a cinque termini (pentagono sulla sinistra) è evidenziato con una linea in grassetto nella forma R e con un legame tratteggiato nella forma S; per convenzione, il legame in grassetto indica che gli atomi legati a quel legame escono fuori dal piano, puntando verso il lettore, al contrato il legame tratteggiato indica che gli atomi legati a quel legame puntano al di là del piano, andando in direzione opposta a quella del lettore. Quindi in sostanza questa differente disposizione spaziale dà vita a due molecole differenti da un punto di vista tridimensionale, una con effetti anti-emetici ed una con effetti teratogeni. Entrambe le molecole vanno sotto il nome di talidomide, ed il farmaco della Chemie-Grünenthal e delle altre case farmaceutiche aveva entrambe le forme al 50%: si parla in questo caso di racemo.

A lungo ci si è chiesti se questa che è a tutti gli effetti una tragedia poteva essere o meno evitata. La risposta è no: la Chemie-Grünenthal, l’azienda tedesca che per prima produsse il farmaco, eseguì tutti i test richiesti dalla legislazione dell’epoca. A seguito delle note vicende, l’azienda avrebbe potuto chiedere scusa. Cosa che fece solo nel 2012, 61 anni dopo.

In Italia una delle prime leggi che prevedono un indennizzo per le vittime da talidomide è stata emanata nel 2007; il nostro fu uno dei paesi in cui il farmaco subì il ritiro dal mercato con un ritardo di circa tre settimane rispetto agli altri paesi.

Link ed approfondimenti

  • Thalidomide: Tragic Past and Promising Future, S. V. Rajkumar, Mayo Clin Proc. 2004, 79, 899-903.
  • The evolution of thalidomide and its IMiD derivatives as anticancer agents, J. B. Bartlett, K. Dredge, A. G. Dalgleish, Nature 2004, 4, 314-322.
  • Thalidomide-Induced Teratogenesis: History and Mechanisms, N. Vargesson, Birth Defects Research (Part C) 2015, 105, 140-156.
  • Thalidomide: The Tragedy of Birth Defects and the Effective Treatment of Disease, J. H. Kim, A. R. Scialli, Toxicological Sciences 2011, 122, 1-6.

Autrice: Annarita Noschese
Editor: Francesco Pennanera

VISIONI CLOWN – Ep.6

Storia.

XVIII secolo: arrivano i clowns.

Il clown bianco: il primo vero clown

«Il clown bianco […] non è altro che il primo vero clown, con il viso bianco, dall’espressione grave, dal portamento controllato, elegantemente vestito» (Renevey, 1985). L’attributo pleonastico “bianco” assume ragion d’essere solo in contrapposizione con l’augusto, il clown “rosso”, di cui parleremo nel prossimo paragrafo. Questa figura rappresenta un cambiamento sostanziale nel tipo di performance proposta dagli attori comici del circo.

I clown scendono da cavallo e «iniziano a dilettare l‟audience con “gioiose improvvisazioni che provocavano l‟ilarità degli spettatori”». Siamo nella prima metà del XIX secolo in Inghilterra, dove l’influenza dei fool e dei comici popolari ormai approdati a teatro si fa sentire (Nivolo, 2016): come afferma Fulgenci Mestres Betran, clown bianco in attività conosciuto con lo pseudonimo di Gensi, «[…] le tipiche orecchie rosse derivano da un personaggio dell’epoca elisabettiana che era un po’ infernale»2.

Joe Grimaldi

Una connessione artistica testimoniata anche dall‟attività di Joe Grimaldi (Clare Market 1778-Pentonville 1837), considerato uno dei padri del circo e del clown moderno. Come il padre Giuseppe, Joe Grimaldi proveniva dal mondo dello spettacolo popolare, quello delle fiere, delle piazze, le cui origini erano radicate tra gli zanni, gli imbonitori, i saltimbanchi e le pantomime (Pretini, 1988). «Egli vestì prima i panni di Arlecchino, divenne mimo, si trasformò e diede vita alla moderna maschera del clown», anche se, come abbiamo visto, il primo clown per definizione fu Thomas Kemp, anch’‟’egli attivo nello stesso all‟incirca nello stesso periodo, ma sulla sponda opposta della Manica.

In Francia, grazie a Clément-Philippe Laurent, il clown bianco moderno vede il suo compimento. Le caratteristiche del pierrot francese e del mimodramma si uniscono a quelle della pantomima acrobatica e del clown scespiriano: «agilità, ricerca della difficoltà, desiderio di fare meglio» mescolati a «humor morboso, infernali eccentricità, contorsioni inattese e volubilità narcisa» (Nivolo, 2016).

Successivamente il grottesco tedesco e la commedia dell‟arte italiana aggiunsero ulteriori ingredienti che furono rielaborati da diversi artisti tra cui James Clement Boswell, Little William Wheal, Candler (che ebbe successo negli Stati Uniti); Chadwick e il suo Nouveau Cirque, Adolphe Montero, i fratelli Nicolet e i fratelli Price, inventori del clown-musicista.

www.circo.it/laltra-faccia-del-clown, ultimo accesso domenica 19 febbraio 2017

Autore: Francesco DI Concilio
Editing: Francesco PennaNera

VISIONI CLOWN – Ep.5

Storia.

XVIII secolo: arrivano i clowns1.

Le origini equestri

E’ probabile che la nascita del clown, inteso come attore comico del circo, sia avvenuta negli stessi anni del primo circo di cui si ha notizia, il circo equestre di Philippe Astley2 (1742-1814), a Londra, intorno al 1770. Questi, come racconta Monica J. Reveney nel suo libro Il circo e il suo mondo (1985): «[…] ebbe la trovata, un po’ per riprendere fiato, ma anche per fare avere una tregua al cavallo, di fare l’imitazione di un grottesco sarto che cerca di salire in sella a un cavallo: il primo clown, il primo comico della pista circolare fu quindi un volteggiatore grottesco a cavallo».

Il primo comico del circo: Billy Sunders
Secondo quanto riportano sia Reveney che Rémy quel “primo comico del circo” fu probabilmente Billy Sunders (o Bill Saunders) che interpretava «un goffo cavallerizzo alle prese con un cavallo poco disciplinato»3. Per quanto incerte le fonti, le testimonianze sono concordi sul fatto che Billy Sunders figurava nell’organico dei volteggiatori a cavallo del circo Astley. Ci troviamo a Londra, nei primi dell’ottocento, dove il circo equestre di Astley era ritornato, dopo essersi trasferito a Parigi dal 1774 fino all’incoronazione di Napoleone.
Anche il nome e il costume del personaggio si rifanno ai classici di parodia equestre in cui gli artisti riproponevano le acrobazie a cavallo dei consueti numeri del circo, ma questa volta in chiave comica e inconsueta. «Claune – infatti – è il nome che si dà ai protagonisti di questa farsa. […] Claune è la pronuncia della parola inglese clown – o clod – che significa “contadino” e deriva da colon». L’accezione comica del nome è dovuta al fatto che clown era un contadino, un bracciante, uno che agli occhi dei cittadini appariva ridicolo e divenne per questo sinonimo di “tipo buffo” , alla stregua di un giullare, che poteva far ridere anche solo per il suo aspetto (Nivolo, 2016)4.
Allo stesso modo, il termine italiano pagliaccio è legato alla povertà delle sue origini e del suo costume, poiché l’abito degli attori comici era realizzato con una tela grezza simile a quella del rivestimento dei pagliericci, detta appunto pagliàccio. In entrambi i casi appare evidente la connotazione originariamente dispregiativa e classista del termine i cui strascichi sono presenti ancora, spesso a discapito della sua dignità di arte performativa.
Intanto in Francia..
Emule di Sunders, in terra francese, fu Andrew Ducrow, autore ed esecutore di «una cinquantina di pantomime, alcune delle quali restarono semplici “ippodrammi” […] mentre altre si svolgevano in grandiose scenografie» (Renevey, 1985). A Ducrow, che «recitava degli intermezzi comici nelle pause tra i numeri di esercizi a cavallo», si ispirarono probabilmente Joe Grimaldi e Laurent. Più certa l’influenza su Jean Gontard, pagliaccio equilibrista del Circo Franconi di Parigi.
I primi pagliacci
I primi pagliacci di cui si hanno notizie certe erano sostanzialmente acrobati che intrattenevano il pubblico eseguendo esercizi complessi e spettacolari in maniera buffa, performances che raggiunsero il loro apice artistico grazie a Jean Baptiste Auriol (Toulouse 1806-1857). Acrobata raffinato, audace e fantasioso, Auriol debuttò al Circo Franconi tra il 1834 e il 1835, dove probabilmente subì l’influenza di Jean Gontard, elevando il livello delle acrobazie a tentativi mai visti prima e riproposti in seguito, a periodi alterni, da molti clowns. Uno su tutti l’inglese Thomas Kemp (?-1855), riconosciuto come «il primo clown propriamente detto».

1. Tristan Rémy, Arrivano i clowns. Le più belle comiche del circo, trad. it. Montesi V., Emme Edizioni, Milano 1981.

2. Philippe Astley è considerato, insieme a Hagenbeck, Barnum, Grimaldi e Franconi, uno dei “padri” del circo moderno. Cfr. Pretini G., Antonio Franconi e la nascita del circo, Udine, Trapezio, 1988.

3. Reveney M.J., Il circo e il suo mondo, Roma-Bari, Laterza, 1985.

4. Nivolo E., Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità e antistruttura, Torino, Mimesis, 2016

Tale citazione riportata in Nivolo E, Op. cit., p. 81, è tratta da un‟opera in francese di una certa Mme B…, née de V…l (Le cirque Olympique, Parigi, Nepveu, 1817) che rappresenta un compendio degli esercizi equestri eseguiti nel circo gestito dalla famiglia Franconi. Cfr. Delannoy J.C., Dalla “Bibliografia francese del circo”, Lieutier, Parigi, 1944, in Pretini A., Op. cit., p.375. La pronuncia di claune è da leggersi clon.

www.treccani.it/vocabolario/pagliaccio, ultimo accesso 18 febbraio 2017.

Autore: Francesco Di Concilio
Editing: Francesco PennaNera
Cover design: Valerio Ichiun Salzano

In the mood for… Stagioni

La vita di ognuno di noi è scandita dal susseguirsi dei giorni e delle stagioni, ma ad un tempo “esterno” si sovrappone uno “interno”, scandito da eventi che possono essere personali o meno, che marcano l’inizio o la fine di epoche differenti della nostra vita. 

Per molti giovani che si riconoscevano negli ideali della sinistra rivoluzionaria, il 9 ottobre segna la fine di un’epoca piena di speranza in un mondo più giusto ed equo. 

Il 9 ottobre 1967 viene ucciso in Bolivia Ernesto Che Guevara. 

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La visione del mondo di un clown – Ep.4

Storia

Dalla farsa alla commedia dell’arte

Dalle attività dei mimi, dei giullari e dalle cerimonie delle feste pagane – una su tutte la festa dei folli – si svilupparono forme teatrali meno elaborate che, a partire dal XIII secolo, diedero vita a drammi di carattere non specificamente religioso, come la farsa. A queste forme di intrattenimento si deve, scrive Brockett, la tradizione di caratteristiche poi confluite, seppur in diversa forma e misura, nella commedia dell’arte e nei clowns.

La commedia

La commedia dell’arte trae la propria linfa vitale dai mimi, che avrebbero tramandato nel corso del medioevo la farsa atellana (I secolo a.C.), simile alla commedia per la presenza di personaggi fissi e per la natura degli intrecci. Oppure, secondo un’altra ipotesi, avrebbe avuto origine da compagnie di mimi bizantini che, in seguito alla caduta di Costantinopoli (1453), si trasferirono in Occidente. Ad ogni modo, un trait d’union che lega la fabula atellana e la farsa, alla commedia cinquecentesca ed il clown, si può individuare, oltre che nell’intreccio comico delle vicende narrate e nella pratica dei mimi che ne hanno perpetrato la tradizione, nell’uso della maschera.

La maschera

Il tipo di maschera che indossa il pagliaccio del circo contemporaneo, sia essa il trucco bianco con le orecchie rosse o il più noto e diffuso naso rosso, è una maschera caratterizzante, che rende riconoscibile il personaggio già ad un primo colpo d’occhio e ne determina i comportamenti. Da questo punto di vista risulta evidente il tributo pagato alle maschere della commedia dell’arte, diffusa a partire dal XVI secolo. Con la commedia dell’arte il teatro esce dagli ambienti cortesi e diventa professionale: «è del 1545 il primo contratto che stabilisce la costituzione per un anno della compagnia di comici di Maffio da Padova». Nell’ambito della sua struttura organizzativa e scenica, oltre alla citata maschera, possiamo individuare ulteriori elementi che ritroveremo, con le dovute differenze, nei clown: due di questi sono gli zanni.

Zanni

Gli zanni, o servi, erano due personaggi della commedia dell’arte che, seppur in numerose varianti, presentavano caratteri simili nelle diverse compagnie in cui venivano interpretati.

Il primo zanni era furbo, intrigante, motore dell’azione; il secondo zanni, «rozzo e sempliciotto, con i suoi scherzi […] interrompeva l’azione e scatenava la comicità». Un duo comico che da lontano (ma non troppo) ricorda il rapporto tra il clown bianco e l’augusto del circo ottocentesco. Tra gli zanni più popolari troviamo la maschera di Arlecchino, il quale «incarnava un misto di furberia e stupidità, era un consumato acrobata e ballerino ed in genere era al centro di ogni intrigo». Noto anche come Truffaldino e Trivellino, subì dei cambiamenti anche nel costume, passando dalle toppe di cenci alla combinazione di losanghe rosse, blu e verdi con cui lo identifichiamo oggi.

The fools

Personaggi di bassa estrazione sociale, intriganti e inclini a lazzi e angherie di ogni tipo erano i fool delle opere di Shakespeare, una trasposizione teatrale dei giullari e dei buffoni di corte, definiti spesso “clown scespiriani” in riferimento alla loro umile origine e al costume di foggia contadina.

Il culmine del successo della commedia dell’arte, secondo quanto riporta Brockett, si incontra tra la metà del sedicesimo e metà del diciassettesimo secolo, per poi trascinarsi fino alla seconda metà del XIX, quando ormai aveva perso di interesse e di prestigio. Nonostante ciò, fu molto apprezzata in molti paesi europei, tra cui Inghilterra, Francia e Germania dove influenzò attori e scrittori locali e dove, non a caso, i pagliacci muoveranno i loro primi passi sulle piste del circo.

Autore: Francesco Di Concilio

VISIONI CLOWN – Ep.3

Storia

Mimo e pantomimo (IV secolo a.C. – XVIII sec. d. C.)

Con il termine mimo vengono designati diversi tipi di spettacoli teatrali di carattere popolare, applicabile tanto ai testi quanto agli attori che li interpretavano.

«Il mimo consisteva essenzialmente di brevi commediole, danze mimiche, imitazioni di animali e uccelli, canti, acrobazie, giochi di destrezza e così via. Piccole compagnie di mimi si esibivano probabilmente ai banchetti, o in altre simili occasioni, già nel quinto secolo a.C. e possono essere considerate le prime formazioni di attori professionisti», le prime a includere le donne.

Brockett, 2016: 55

Nella sua accezione di brevi rappresentazioni, il mimo, da Megara, il suo probabile luogo d’origine, ebbe modo di diffondersi in tutto il bacino del Mediterraneo e dunque anche in Sicilia e Italia meridionale, da dove venne assimilato nel teatro romano. E’ del 211 a.C. il primo riferimento al mimo a Roma come forma teatrale, prima di diventare, intorno al primo secolo, anche genere letterario e, quindi tornare, alla sua forma originaria in età imperiale, imponendosi su tutte le altre forme di rappresentazione.

La forma drammatica del mimo era generalmente breve, «che però poteva talvolta diventare uno spettacolo anche abbastanza ricercato e complesso con la partecipazione di molti attori». Poteva trattare diversi argomenti, in modo serio o comico, ma per lo più traeva ispirazione dalla vita quotidiana e ne risaltava gli aspetti comici e satirici.

Le compagnie di mimo avevano a disposizione numerosi intrattenimenti secondari, come numeri di funamboli e trapezisti, di mangiatori di fuoco, di giocolieri, acrobati, animali ammaestrati, fatto che le inserisce appieno anche nella vicenda storica del circo, che nella sua struttura contemporanea è incubatrice e dimora della figura del clown, che dal mimo trae le tecniche di narrazione, composte da gesti e movimenti in grado di evocare immagini e storie senza l’uso della parola.

In età imperiale «era molto in voga anche un altro genere teatrale, il pantomimo, […] uno spettacolo che tramite la danza raccontava una storia». Diffuso in Grecia già dal V secolo a.C., il pantomimo contava sulla scena due o più ballerini, che a Roma, introdotto nel 22 a.C., divenne un assolo, «anche se era prevista la presenza di un assistente che occupava una posizione subordinata», dualismo presente anche in successive forme di rappresentazione. Le trame erano tratte dalla mitologia o dalla storia; l’azione era eseguita da un solista che interpretava tutte le parti gesticolando, danzando e recitando monologhi lirici; l’accompagnamento musicale era a cura di un coro e un’orchestra di flauti, pifferi e cembali.

Il genere attraversò i secoli mescolandosi e ad altre forme di drammaturgia, fino a rifiorire in Inghilterra nel XIX secolo. «Il pantomime inglese combinava elementi della commedia dell’arte e della farsa con la satira sui fatti d’attualità e le storie tratte dalla mitologia classica». Fu grazie a John Rich (1692-1761) – direttore dei teatri di Londra e celebre pantomimo – che i personaggi della commedia dell’arte entrarono a far parte della rappresentazione, invece che comparire negli intermezzi come di consueto. Le scene comiche erano mimate, l’intreccio si sviluppava per mezzo di canti e dialoghi e la musica accompagnava la maggior parte dell’azione. Utilizzati inizialmente come pezzi di chiusura degli spettacoli, intorno al 1723, il pantomime assunse un tale successo da diventare più popolare dei drammi cui faceva seguito.

Se te li sei persi…

Autore: Francesco Di Concilio

VISIONI CLOWN – Ep.2

Storia. Etnografia. Formazione.

Premessa: gli studi e le fonti

Gli studi storici sul clown non sono molti e la maggior parte fa riferimento alla pubblicazione al momento più completa a disposizione, almeno fino al 1945, anno della sua pubblicazione.

Si tratta del fondamentale testo dello storico del circo Tristan Rémy, I clown. Storia, vita e arte dei più grandi artisti della risata, citato più volte in un’altra opera fondamentale, questa volta di recente pubblicazione, che analizza la figura del clown come elemento liminale e anti-strutturale all’interno della società occidentale a partire dalla rivoluzione industriale: Enrico Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità e antistruttura (2016).

Di quest’ultimo ci si è serviti sia come principale fonte indiretta del testo di Rémy – di difficile reperibilità nell’edizione italiana e parzialmente disponibile in versione digitale su Google Libri –, sia per impostare la parte storica a partire dal XVIII secolo, oltre che per i rimandi ad altre importanti testi sull’argomento.

Documenti preziosi sono senz’altro film e contributi video che hanno permesso di approfondire e chiarire alcuni punti che tratteremo, uno su tutti la pellicola di Fellini, I clown (1970), un film-inchiesta che ripercorre la storia dei re della pista, avvalendosi, anch’esso, del contributo dello storico francese, che compare nel film nelle vesti di “informatore” e mediatore.

Secondo Tristan Remy «il clown, di tradizione tutta recente, non ha antenati che di qualche generazione», poiché l’unico elemento che esso ha con i buffoni, i folli delle feste o i giullari di corte è la capacità di far ridere. Nonostante tale cesura, in questa affermazione possiamo intravedere, parlando di clown, una pista da percorrere per individuare gli elementi che, attraverso i secoli e con le inevitabili mutazioni e adattamenti, dalle tradizioni drammatiche e comiche dell’antichità, sono confluiti o riemersi nell’arte del clown contemporaneo.

Per cui, più che gli attributi comici, che nel corso della storia troviamo disseminati in tutto il bacino del mediterraneo sin dal VI secolo a.C., proveremo a seguire le tracce di alcune delle forme teatrali e rituali che sono entrate a far parte del bagaglio tecnico del pagliaccio, cosa che ne fa a sì un continuatore delle espressioni artistiche cui accennava Rémy, ma consente di intravedere capillari che attingono a epoche anche assai precedenti.

Ritroveremo, lungo il percorso, oltre al mimo e al pantomimo, le maschere e i personaggi della Commedia dell’Arte, fino ad arrivare agli acrobati a cavallo del circo equestre, che apriranno definitivamente la strada al clown contemporaneo e al nostro tentativo di quadro storico della sua affermazione.

Questa miniserie, prende spunto da uno studio del 2016 e qualunque contributo che possa arricchirla e renderla più complessa e interessante è benvenuto.

T. Rémy, I clown. Storia, vita e arte dei più grandi artisti della risata, trad. it. A. Panella, Robin Edizioni, Roma, 2006.

E. Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità e antistruttura, Mimesis, Torino, 2016.

Autore: Francesco Di Concilio

VISIONI CLOWN – Ep.1

Storia. Etnografia. Formazione.

Introduzione

La serie di articoli che state per leggere è tratta da uno studio risalente al 2016, confluito nella tesi di laurea triennale dell’autore. Esso coincide con l’inizio degli studi pratici sul clown che l’autore stesso ha intrapreso, prima e dopo la stesura del contributo, e che andrebbe arricchito con le testimonianze e considerazioni maturate negli anni. Si è scelto, pertanto, di conservare qui la parte saggistica e di destinare ad un’altra serie un taglio più personale e coinvolto. Qualsiasi osservazione e contributo finalizzato a migliorarla sarà sempre ben accetto. Buona lettura. fdc.

Il testo fondamentale che ha preceduto e accompagnato la stesura della presente ricerca è il saggio di Enrico Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità1 e anti-struttura (2016), al momento l’unico e il più completo lavoro antropologico sulla figura del pagliaccio e in particolare sui processi di formazione dei clown all’interno di due metodi di riferimento: quello di Jacques Lecoq e la riscoperta del teatro fisico, da un lato; quello del clown Dimitri e lo studio delle clowneries classiche del circo, dall’altro.

Tale processo di formazione (definito clown-poiesi) si presenta in opposizione ai valori consolidati e imposti della formazione dell’essere umano (antropo-poiesi) all’interno della società capitalista, costituendo un possibile spazio liminale1 in cui ne vengono ribaltati e messi in discussione i valori.

Le interviste effettuate hanno dato pieno riscontro di questa possibilità, ampliando, come osserveremo, questo spazio alla quotidianità. Nell’immaginario collettivo il clown è il personaggio dal grande naso rosso, dal costume colorato spropositatamente largo, dal trucco esagerato, la cui occupazione principale è quella di intrattenere grandi e piccoli. Per quanto alcuni elementi effettivamente ricorrano ed abbiano una spiegazione storica, l’interpretazione più comune della figura del clown non è altro che il riflesso di una sua lettura parziale, legata all’ambito del commercio e del consumo, che non tiene conto delle sue radici, del contesto di origine e sviluppo e, dunque, misconosce la dignità delle forme d’arte performativa su cui si basa.

Tant’è che il nome è spesso usato, anche nelle sue traduzioni, in senso dispregiativo, riferito a qualcuno che si comporta in modo poco serio o credibile. D’altronde, è la sua stessa etimologia che cela un intimo disprezzo verso una categoria sociale. Clown in inglese (derivato di ‘colon‘) vuol dire “contadino”, che agli occhi degli esponenti delle classi cittadine agiate di metà Ottocento, divenne sinonimo di “sempliciotto”, “persona buffa”, che suscitava l’ilarità attraverso i suoi comportamenti goffi e insicuri.

Tuttavia, dire pagliaccio2 a chi fa il pagliaccio di mestiere, vuol dire sottintendere tutta una serie di elementi che in genere, pensando ai comici del circo, non vengono presi in considerazione. Il clown diventa arte quando l’incapacità e l’insicurezza vengono metabolizzate e riproposte in modo consapevole. Cosa tutt’altro che semplice, perché ciò presuppone una ricerca che va al di là del semplice senso estetico o dell’apprendimento delle tecniche “per far ridere”.

Come vedremo in modo approfondito nella parte storica di questa serie, l’arte del clown si avvale di forme teatrali che risalgono alla Grecia classica, passando per il mondo romano, per poi attraversare la temperie artistica dell’itineranza medievale e dei teatri rinascimentali. La strutturazione del moderno circo e gli sviluppi politici e sociali di XVIII e XIX secolo fanno il resto, finché, dopo le guerre mondiali, il clown, elevato a forma d’arte e poesia, entra a pieno titolo a far parte della formazione dell’attore nelle scuole di teatro, come quella di Lecoq.

Il punto di partenza

Ma cosa vuol dire fare il clown?
Questa la questione di partenza di questa rassegna. Domanda che, come vedremo, condurrà a nuove considerazioni che implicano il clown non solo come forma d’arte performativa di carattere comico, ma come criterio attraverso cui impostare gli studi teatrali, l’insegnamento e la vita stessa.

La prima testimonianza raccolta e analizzata è quella di Emmanuel Gallot-Lavallée, il quale dispiega, sotto i piedi del clown, un tappeto di considerazioni filosofiche ed etiche che accostano la sapienza occidentale alle filosofie orientali, l’arte pittorica alla poesia, le teorie evoluzioniste al teatro contemporaneo.

L’intervista inaugura la seconda parte della serie, quella “etnografica”, tuttora in redazione, in cui performer, insegnanti e artisti offrono la propria testimonianza per aiutarci e indirizzarci nella comprensione di un prodotto umano, il clown, che all’essere umano si rivolge mettendolo di fronte alla consapevolezza delle proprie potenzialità e debolezze.

1. Vedi anche liminare. Per riti liminari Van Gennep intende l‟insieme dei riti di passaggio all‟interno di una società che prevedono un periodo di distacco da essa che comprenda il sovvertimento dei valori che ad essa appartengano prima di rientrarvi in una nuova fase della propria vita culturale. Cfr. Van Gennep A., I riti di passaggio, trad. it. Remotti M.L., Bollati Boringhieri, Torino, 1981.

2. Pagliaccio, in italiano, ha attraversato la stessa mutazione di significato, passando attraverso l’immaginario della vita contadina e agreste.

Autore: Francesco Di Concilio