Apocalypse: How? (Parte 2)
Nella prima parte eravamo giunti alla questione pratica di come avveniva, nei primi secoli dell’era volgare in ambienti giudaici e protocristiani, quella che veniva ritenuta, riconosciuta o interpretata come un’esperienza di contatto diretto con l’oltremondo.
Possiamo cominciare col dire che per avere un’esperienza del genere c’è senz’altro bisogno di un corpo. Sono escluse, quindi, improbabili smaterializzazioni o ascensioni fisiche nell’aldilà e relativi ritorni introdotti da un “Ho visto cose che voi umani…”.
Per avere una visione dell’oltremondo è necessario che ci sia un corpo che agisce, di una persona reale, viva e vegeta, che abbia esperienza del contatto modificando il proprio stato emotivo. Ma in che modo è possibile alterare il proprio stato emotivo?
Proviamo a rifletterci rispetto al nostro quotidiano.
Psicotropia e visioni
Cosa può cambiare il corso delle nostre emozioni abbastanza da alterare la nostra chimica interiore e renderci qualcosa d’altro rispetto a quello che siamo di solito? Può benissimo riuscirci una bevanda alcolica, un medicinale o qualcosa che ingeriamo o introduciamo nel nostro corpo (cibo, fumo). In altre parole quella che chiamiamo sostanza psicotropa può alterare la nostra percezione del mondo e, di conseguenza, di noi stessi.
Ma può farlo anche qualcosa che non necessariamente deve essere ingerita, come un buon romanzo o una pièce teatrale.
In questa stagione altamente mediatica, qualsiasi sollecitazione esterna proveniente dai dispositivi che portiamo sempre con noi può diventare psicotropa e farci divertire, arrabbiare, rilassare, piangere, o tutto questo assieme, nel giro di pochi minuti.
Possono esserlo, va da sé, anche le azioni umane.
La minaccia di una violenza o di un pericolo da parte di una persona, di un gruppo o di un’autorità, può provocare uno stato di stress emotivo che alla lunga influenza i nostri comportamenti. Questa modalità è anche definita teletropia, ovvero una psicotropia poiché agisce per vie indirette e indesiderate. Autotropia, al contrario, è quando scegliamo liberamente di sottoporci ad un’esperienza psicotropa.
Tornando alle nostre Apocalissi, la loro origine prende il via proprio da un’esperienza psicotropa attraverso la quale il veggente o la veggente preposti assumevano una percezione di sé fuori dall’ordinario e vivevano, o meglio, credevano di vivere un’esperienza di contatto diretto con l’aldilà.
E con aldilà intendiamo tutta una schiera di personaggi angelici, demonaici, oltre a strati e strati di cieli, fino ad arrivare all’altissimo, in qualche occasione. Un vero e proprio viaggio nell’altro mondo che permetterà il visionario di scoprire quale sarà il destino dell’universo.
L’algoritmo visionario
Nel periodo e nella regione di cui ci stiamo occupando (la Palestina di epoca ellenistico-romana) i veggenti erano dei veri e propri professionisti in un certo senso allenati a cadere in trance a seconda delle necessità. E non è detto che lo facessero assumendo bevande fermentate o sostanze di altro tipo.
Nella maggior parte dei casi, come testimoniano i documenti, ad innescare la visione è proprio un testo, uno scritto o un brano, magari frutto del racconto di una visione precedente che, in questo modo, ne genera un’altra e così via, a seconda dello scopo cui era destinata.
In pratica, come abbiamo accennato riguardo l’Ascensione di Isaia, l’algoritmo di formazione di un resoconto apocalittico era più o meno questa:
- Un profeta o un veggente aveva una visione ispirata dalla lettura di un passo particolarmente significativo per lui in quel momento;
- la sua esperienza di contatto avveniva in presenza di un pubblico di scribi, sacerdoti o addetti al culto in generale (oltre che di fedeli comuni), pronti a mettere per iscritto quanto il profeta avrebbe raccontato alla fine della propria esperienza (che, ricordiamo, sia il profeta sia gli astanti, ritenevano realmente avvenuta);
- dal resoconto scritto si ricavava un testo riadattato alla luce della tradizione e della cultura propria di chi scriveva o del pubblico cui era destinata.
Trattandosi del giudaismo tardo antico e del protocristianesimo, la fonte principale cui attingevano sia i visionari che gli interpreti delle visioni erano anche e soprattutto i testi che saranno poi conosciuti come biblici.
Per questo in molte apocalissi troviamo rievocazioni di fatti, immagini e personaggi già presenti nella Bibbia ebraica. A esempio esiste un apocalissi nota come Libro di Enoc, in cui il patriarca anti-diluviano che compare nella Genesi è protagonista di visioni, sogni e predizioni. E non è il solo a venire ri-chiamato in causa.
Scrittori di Apocalissi e loro motivazioni
Ciascun episodio, profondamente interiorizzato da chi ne conservava memoria, veniva di volta in volta reinterpretato per risultare idoneo ai tempi che correvano, anche centinaia di anni dopo lo scritto di origine, e per rispondere a determinate necessità.
Ne abbiamo parlato più volte delle necessità di produrre nuovi testi apocalittici, ma cosa vuol dire esattamente?
Perché le apocalissi venivano prodotte?
Tutto quel rimandare, citare e riformulare di solito produceva un collage di pezzi di varie tradizioni ed epoche che si mescolavano ai racconti orali, ancora importanti a quei tempi, fino a diventare testi scritturalizzati, cioè considerati definitivi, normativi e patrimonio culturale di una determinata società o gruppo religioso.
Spesso il processo si accompagnava a dinamiche di opposizione o polemica con altri gruppi, i quali a loro volta, se non sostenevano proprio l’opposto, quanto meno affermavano la stessa verità in modo diverso.
Apocalissi e potere
Dunque, riepilogando, chi metteva per iscritto i resoconti visionari era spesso legato a un determinato gruppo religioso-culturale che si andava affermando in quell’arcipelago fluido e discontinuo che era il giudaismo dopo la distruzione del Tempio da parte dei Babilonesi prima (586 a.C.) e dei Romani poi (70 d.C.), tra cui rientreranno anche i primi seguaci di Gesù, prima di attribuirsi un’identità autonoma.
Già alcuni scritti rientrati nel canone biblico odierno testimoniano di testi prodotti in risposta a un determinato contesto storico.
Il libro di Daniele, ad esempio, si ritiene sia stato messo per iscritto all’epoca della rivolta maccabaica, in seguito alla morte del persecutore Antioco IV Epifane, quindi intorno al 165 a.C. Il testo contiene delle visioni degli ultimi giorni del mondo in cui finalmente il bene (il popolo ebraico oppresso) trionferà sul male (i popoli conquistatori, in questo caso i Seleucidi).
Ritroviamo, per questo motivo, un significato politico e identitario oltre che culturale nella redazione degli scritti apocalittici, in reazione a forti traumi subiti da una determinata comunità.
A volte si tratta di un vero e proprio shock che porta al vaticinio e alla produzione di scritti che annunciano l’ora della salvezza e i primi seguaci di Gesù furono molto prolifici sotto questo aspetto.
Già dopo meno di un secolo dalla crocifissione improvvisa del loro leader, circolavano diversi resoconti sulla storia della sua vita e dei suoi seguaci più prossimi. Si moltiplicarono, inoltre, anche gli scritti che vedevano Gesù come protagonista (dichiarato o celato sotto l’aspetto di esseri oltremondani o profetici) di racconti escatologici, che riguardano la fine dei tempi e la salvezza o la dannazione dei popoli, a seconda del proprio schieramento.
Poiché non esistevano solo gli oppressori, Babilonesi, Persiani, Greci o Romani che fossero, nel mondo giudaico e protocristiano. C’erano anche diverse correnti e comunità, non necessariamente d’accordo tra loro, e ciascuna cercava di attribuirsi una superiore autorevolezza rispetto alle altre traendo legittimità proprio dalle scritture, in un mondo in cui la scrittura era un’arte quasi sacra, appannaggio di pochi e depositaria della verità e della legge.
Quasi come oggi, ma con meno attenzione alle fonti, se non quella che ciascun gruppo attribuiva alle proprie tradizioni.
Raccogliere i pezzi
Con questo spirito, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, un gruppo di sacerdoti ebrei di scuola rabbinica ha deciso di incontrarsi a Jabne (o Iamnia), sulle coste Palestinesi, per cercare di ricompattare una comunità sconvolta dall’invasione, dalle guerre e dalle numerose rivolte.
In quell’ambito, in un processo che probabilmente è durato parecchi decenni, è stato stabilito in modo definitivo il testo del Tanakh, ovvero il canone della Bibbia Ebraica, o l’Antico Testamento di quella cristiana.
Allo stesso modo, nelle diverse regioni del bacino del Mediterraneo in cui si diffuse il cristianesimo dei primi anni, troviamo composizioni diverse dei libri sacri e spesso delle differenze sostanziali all’interno degli stessi scritti. Pensiamo ad esempio, che parte del Libro di Enoc (noto come 1Enoc) fa parte del Nuovo Testamento in lingua copta (Egitto) e non di quello cattolico, o che il Libro dei Giubilei è presente nel canone etiopico e non in quello latino.
Detto molto (forse troppo) semplicemente: ogni gruppo ha reso sacri i libri di cui aveva bisogno. Allo stesso modo accreditava questo o quello scritto apocalittico piuttosto di altri per legittimare la propria vicinanza a un potere costituito o in via di costituzione, oppure per affermare la propria viva opposizione e la creazione di un potere ribelle o alternativo.
In breve i testi contribuivano a dare identità ai gruppi.
Social Media Clairvoyant
Ma, al di là dei giochi di potere, il quadro sintetico dei temi trattati nel libro di Luca Arcari che ci ha accompagnato in questa stesura, ci porta a una considerazione dello studioso riguardo i testi apocalittici: questi sono dei veri e propri mezzi di comunicazione in cui, attraverso il contatto con il divino, si vuole far arrivare un messaggio a dei fruitori.
Ai tempi della loro produzione, erano un medium che funzionava proprio per la loro promessa di un mondo migliore che sarebbe sicuramente arrivato, come confermato da segni celesti e dalle stesse visioni profetiche.
A parte crederci, spesso i fruitori non erano tenuti a fare altro. L’attesa escatologica determinata dalle azioni celesti disinnescava il potenziale “rivoluzionario”, diremmo noi, del disagio esistenziale.
Anche oggi spesso si riesce difficilmente ad accettare la realtà per quella che è e si vorrebbe trovare il modo di cambiarla, trasformandola, come sosteneva Hobsbawm, attraverso una sostituzione del potere. Quello che facevano i resoconti apocalittici, o qualsiasi prospettiva escatologica, era rimandare il momento del riscatto e trasformare l’agitazione in attesa.
Eppure, restando in ambito letterario, più che apocalissi, quelle moderne sono delle Distopie, in cui il peggio che poteva accadere è accaduto e ora si tratta di ricostruire come meglio si può.
Una prospettiva disillusa e pessimistica, forse, basata su un pessimismo che riflette la coscienza acquisita di un potenziale enormemente distruttivo che ha l’essere umano sul mondo e su sé stesso. Oppure fin troppo ottimistica, quando la mera speranza di uscire da una brutta situazione ci fa presagire che Andrà tutto bene.
Il difficile è rimanere lucidi, non farsi influenzare troppo dalle sostanze psicotrope che erompono da qualsiasi parte, e saper distinguere tra quello che è un bel racconto per farci stare meglio e la nostra effettiva capacità di determinare la nostra esistenza e quella di chi ci circonda.
Il bene che vince sul male è ormai solo un racconto interessante per capire meglio come siamo e come lo siamo diventati.
Per il resto forse abbiamo bisogno di nuove rivelazioni, che riguardano da vicino ognun* di noi.
Testo e copertina: Francesco Di Concilio
Bibliografia
- Luca Arcari, Vedere Dio. Le apocalissi giudaiche e protocristiane (IV sec. a.C. – II sec. d.C.)
- Paolo Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, Torino, UTET, 1981-2000 (5 volumi).
- Mario Erbetta, Gli apocrifi del Nuovo Testamento, Torino, Marietti 1966-1981 (3 volumi).
- Luigi Moraldi, Apocrifi del Nuovo Testamento, Torino, UTET 1994 (3 volumi).
- Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, Torino, UTET, 2018.