Cose dell’altro mondo #2

Reborn Dolls

“La signora Salvemi?” – “Si, sono io”

“Prego, signora, il dottore la attende”. “Grazie al cielo, andiamo Massimooo? Su Massimo!”

La donna si alzò, avviandosi verso la porta dello studio dove il dottore sulla soglia si era palesato per accoglierli.

Il bimbo interruppe d’un tratto la sua corsa circolare, richiamato all’ordine dalla madre, e fermo sui piedini incerti, al centro della sala d’attesa, fissando quell’uomo col camice bianco che riportava alla sua mente terribili accadimenti di varia natura, come bastoncini di legno giù per la gola, freddi aggeggi sulla schiena, sottilissimi arnesi appuntiti nelle braccia, scoppiò in un pianto disperato.

Come all’unisono, appena nel tempo necessario a che la madre ritornasse sui suoi passi per rassicurare il piccolo e incoraggiarlo ad affrontare il mostro, sei dei sette bambini presenti in sala, riportati alla brutalità della realtà del loro mondo di giochi e carezze, presero a piagnucolare.

Matteo invece continuava a dormire, indisturbato, accoccolato nell’ovetto, nella sua tutina azzurra sotto una copertina di lino finemente ricamata a mano dalla donna che, accarezzandogli il visetto, ripeteva con voce dolce: “Il mio bimbo speciale, dormi meraviglia”.

Tutte le altre madri cercavano espedienti di distrazione per i pargoli, molte prendendoli tra le braccia e cominciando quel rilassante movimento oscillatorio che è da sempre gesto consolatorio, altre intavolando buffe conversazioni per riportare il sorriso sui faccini sconcertati.

“É l’Apocalisse”, disse il pediatra con un ghigno imbarazzato, “almeno nel mio lavoro la si immagina così.”

Le madri si aprirono in una risatina compiaciuta, memori di tutte le volte in cui il pianto del proprio figlio era sembrato loro qualcosa che preannunciasse la fine del mondo per poi risolversi in una letizia di coccole, e una ad una ripresero il loro posto nella sala, a rivolta sedata.

La madre del piccolo Matteo restò invece muta, a contemplare la scena, persa in una distanza irrangiungibile, dove quel pianto l’aveva incatenata, una vita fa, nella densità di altre lacrime in cui aveva bagnato il petto.

Il dottore fece accomodare la signora e il piccolo miccia nello studio, e richiuse la porta dietro di sé.

“Il suo bambino è un angelo”, disse allora la donna seduta giust’accanto nella fila a quella madre santa, tanto simile ad una madonna in contemplazione, il cui figlio conservava in sè la pace di tutti i sognatori del mondo. Gli sguardi delle altre madri si rivolsero quindi tutti a guardare Matteo, che continuava indisturbato il suo sonno senza sogni.

“Si, Matteo è un bimbo speciale.” La donna le sorrise, condividendo nel cuore lo stesso orgoglio di madre. “Mi è stato recapitato appena ieri, i duemila euro meglio spesi della mia vita. Manifattura tutta italiana. Artisti iperrealisti sa.

Devo andare ora, è l’ora della pappa. Spero di incontrarla ancora.” E tirando su con garbo il piccolo Matteo, si avviò verso l’uscita. Poi, voltandosi ancora una volta verso la donna che ne aveva scoperchiato il dolore disse: “Ho perso mio figlio”. E sparì.

Autrice: Francesca Schiavo-Rappo
Disegno di copertina: Pigutin
Articolo di partenza: Fenomeno Reborn Dolls, apre a Matera la prima fabbrica dei bambini in silicone.

Cose dell’altro mondo

TOMAKAK, IL REATTORE A FUSIONE NUCLEARE CHE ADDOMESTICA IL SOLE

Fonte: Corriere della Sera (Esteri)
Notizia del 07.11.2019
Ambientazione: Francia, Aix-en-Provence
Informazioni di base: Progetto Iter – Reattore a fusione nucleare

La campagna è silenziosa Antima, all’alba di questo diciassette giugno 2025. Si stende, sotto il mio sguardo, fresca e immobile, come i tuoi occhi d’ambra, come quel corpo che ho salutato ieri, forse per sempre, ora catturato in un fotogramma di ricordo, di te sdraiata in spiaggia, fresca e immobile, dopo il bagno, quando ho osservato le gocce d’acqua salmastra diminuire, asciugandosi sulla tua pelle, e risalire poi dalla tua pelle all’aria; ti prosciugavi, riducendoti a quel nucleo di energia gialla che sei anche tu, luce pulsante, agglomerato di atomi, mia Iter.

Finalmente è stato dato l’annuncio: l’elios425 è in commercio. Per acquistarlo cifre esorbitanti al momento, ma sono convinto che nel breve tempo, nel giro di qualche decennio, ognuno avrà il suo sole in tasca e nessun sole più potrà spegnersi, nessun sole morire. È ufficiale: Il congegno funziona. Ed è sempre l’amore a muoverlo, l’amore ad attivarlo.

Ne abbiamo dato prova noi due insieme a centinaia di altri selezionati per la sperimentazione. Tre lunghi anni. Tre lunghi anni di incontri, nella comune degli altri, per passarci al vaglio dell’onestà, della sincerità, tre lunghi anni di iniezioni di cattiveria e inganni, ognuno mirato a testarci, ad esaminare la mia e la tua resistenza, tre lunghi anni a bruciare.

E dopo analisi e litigi, le inevitabili resistenze che ci hanno trascinato per trecentosessantacinque giorni a vagare nelle valli del pianto automatico e della menzogna calcolata, dopo le allucinazioni e gli incubi dovuti all’assunzione degli agenti attivanti, dopo la scelta definitiva ricaduta su di te e l’accettazione del lutto per l’imminente perdita di una simbiosi così ardente, Antima, noi stiamo per entrare nella Storia.

Non è la storia dei piccoli. L’elios 425 è tutto quanto possa consentire alla nostra specie di non estinguersi. Con la prossima glaciazione sarai la mia salvezza, tu che sei oggi la mia rovina. Come oggetto d’amore sarai la materia prima del reattore. Sarà questa immensa passione, questo fuoco che arde al centro di ogni cuore d’esistente prima o poi, che brucia al centro della terra, ma che si propaga dalla superficie del sole come dall’involucro del sentimento di cui ti ho sommersa, quella pellicola densa che ti ricopriva, plasma, magma fluorescente di intenzioni finalmente così compiute per uno scopo più ampio. Non è da tutti, Antima, amare. Non è da tutti nutrire la vita. Eppure è toccato a te il compito più elevato, il ruolo più eroico.

Sarai tu, che hai saputo trattenere il mio e il tuo amore, che non ti sei spesa, non ti sei consumata a finire in una bolla di fuoco. A me spetta il compiangerti e il sacrificio di sopravviverti, di conservare la consapevolezza e tramandarla, e non essere mai, per altri, ciò che tu sei stata per me. Quanto accaduto ad Alberto e Maria è pressoché identico. Ciò mi conferma che rientriamo in una casistica ben inquadrata, in un paniere di amanti scelti tra centinaia di migliaia che invece vivono il loro idillio e lo consumano in fissioni continue, senza mai fondersi.

Che questa pazzia che ci è toccata in sorte, questo vuoto pressoché assoluto che abbiamo alla fine saputo generare, è l’ambiente ideale perché una scintilla sorga, dieci volte più potente di ciò che anima la nostra unica indispensabile stella. Martin mi aveva avvisato: verranno poi le notti insonni, le immagini di lei come in un rogo e con esse i fantasmi.

Ti ho visto scioglierti con immenso calore di guance, e non reggere il peso delle tue stesse palpebre ai miei occhi imploranti. Ti ho vista esangue impallidire per donarmi un nucleo di elementi semplici ma infinitamente potenti.

È andata così: il giorno prescelto il reattore è stato attivato alle 4:25. I supervisori ti hanno spogliato della tuta. Non eri per loro più che una massa enorme di particelle, le vedevano splendere come globuli d’oro uniti in una catena, e potevo vederle anche io, sullo schermo che scansionava il tuo corpo docile, ammansito. I parametri vitali risultavano perfetti. Non hai avuto paura o eri troppo terrorizzata affinché qualcosa mutasse nella fisiologia della tua esistenza di animale. Ti sei adagiata, al suo interno, tra braccia magnetiche che ti avvolgevano stretta ma senza costringerti, senza soffocarti. Le cinghie sono state fissate alle tue caviglie, poi ai tuoi polsi.

Dall’interno il reattore luccicava del bianco laccato del metallo che ne ricopriva le pareti, e tu respiravi quel bianco, divenendo sempre più trasparente ai miei occhi. Ci hanno concesso di mantenere un contatto audio per tutta la durata del processo. Non me la sono sentita di abbandonarti, anche se avrei preferito. I tuoi gemiti, all’attivarsi delle correnti elettriche che avrebbero portato alla riduzione degli isotopi affinché potesse generarsi il plasma, restano la colonna sonora dei miei giorni. In quei momenti, cercando di fuggire l’inevitabilità del futuro, ti ho immaginata, ferma, sulla porta di casa, con un fiore di gerbera tra le mani. Non era possibile fosse una realtà, seppure della memoria di un pazzo innamorato. Non hai mai amato donarmi fiori.

L’accensione è durata alcuni secondi. Poi soltanto l’abbacinante bagliore di un’esplosione, senza altra conseguenza che un tuo deperimento e quella gocciolina di materia pura e densa che presto chiameremo “sole” caderti giù dagli occhi.

Ti ho raccolta, l’indomani, asciutta e piena di colpe da impartire alla mia coscienza. Di averti rubata ai tuoi pari, quelli che vivono per emanazione e sono tutti lì, come li vedi, creature di superficie quale sarei diventato anche io, ora che ti avevo persa, per le quali la complessità dei fondali dell’ego è veleno. Non sentivi più il peso di un giudizio nel mio richiamarti continuo alla profondità dei rapporti, ora che in quel gesto estremo dimostravi a te stessa e a me il tuo profondo valore. Luce pulsante, agglomerato di atomi, mia Iter. Ti avevo amata. Così tanto da non conservare per me nulla, da rovesciare su di te e contro di te tutto ciò che era in mio potere. Tutta la mia futile umanità dopo che ci avevano imprigionato e avevano fatto di noi delle cavie. In fondo così, ero solo fuso con te.

Nelle ventiquattro ore successive, abbiamo avuto appena il tempo di ricordarci di quando tutto aveva avuto inizio. La mia testa sulla tua pancia, leggendoti un canto d’amore che ci chiedeva di avere l’ardire di turbare l’universo. Poi sei mutata in stella, ti porto in tasca.”

Testo: Francesca Schiavo Rappo
Copertina: Pigutin