Pensare il lavoro, cambiarlo adesso

I dati

Nel 2018 circa il 27.3% della popolazione italiana viveva in condizioni di povertà o di esclusione sociale. Questo significa che tre persone su dieci hanno difficoltà ad arrivare a fine mese, non hanno una casa, non hanno un lavoro o le proprie condizioni di salute non permettono di avere un lavoro. La media europea è del 21.7%. Peggio di noi solo Lituania, Lettonia, Grecia, Romania e Bulgaria (dati EUROSTAT 2018).

Figura 1. Dati EUROSTAT sulle percentuali di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale

All’opposto, alla fine del 2019 circa 375 società erano quotate presso la Borsa di Milano, per una capitalizzazione complessiva di circa 651 miliardi di euro.

Ormai è cosa nota: il sistema economico moderno non è basato sulle reali necessità delle persone, ma sull’economia non reale, su indici di borsa, cioè su cose lontane dalla quotidianità. La crisi globale del 2007 è una prova di ciò.

Ci chiediamo allora: è possibile invertire la rotta verso un’economia che miri al benessere delle persone e non a quelle delle aziende?

Si, è possibile. E la strada passa per una riforma del lavoro, ergo è attraverso il lavoro che si può cambiare la qualità di vita delle persone.

Come? Semplice: lavorare tutti, lavorare meno.

Facciamo un attimo un passo indietro, ed analizziamo alcuni trend relativi alla tematica del lavoro.

Il totale di persone con un impiego, disoccupate o coloro che sono in cerca di una prima occupazione (popolazione attiva) è in aumento sin dal 1861; con la maggior partecipazione delle donne alla vita lavorativa pubblica, a partire dal 1970 circa fino al 2011 è stato registrato l’aumento più sensibile. I trend ci suggeriscono che la popolazione attiva potrebbe essere, ad oggi, leggermente più alta di quella del 2011 (Figura 2).

Figura 2 Popolazione attiva dal 1861 al 2011 (dati ISTAT)

L’andamento del numero di lavoratori dipendenti ed indipendenti è rappresentato in Figura 3. Dopo un picco raggiunto intorno al 2007, il numero di occupati ha subito una drastica diminuzione, raggiungendo nel 2013 quasi gli stessi livelli del 1999. Ciò significa che il numero dei disoccupati è aumentato.

Figura 3 – Numero di lavoratori dipendenti e non per il periodo 1995-2013 (dati ISTAT). Nota: i valori del grafico vanno moltiplicati per 1000

Ma come si è distribuita nel tempo la popolazione lavorativa nei tre settori economici principali (agricoltura, industria, altro-servizi)? Il grafico riportato in Figura 4 è molto esplicativo: nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, la maggior parte dei lavoratori era impiegata nel settore dell’agricoltura, mente nel 2011 la situazione si è completamente ribaltata a favore del terzo settore. L’industria ha costituito una meteora nell’economia italiana, essendo il settore con il maggior numero di popolazione attiva solo per un decennio circa (1961-1971).

Il crollo del numero di persone impiegate nel settore agricolo è essenzialmente dovuto alla meccanizzazione del lavoro.

Il boom economico successivo alla seconda guerra mondiale ha fatto diventare l’industria il maggiore settore economico italiano; la successiva mancanza di investimenti e la delocalizzazione verso l’estero di siti di produzione, ha determinato il suo tracrollo.

Figura 4 – Distribuzione della popolazione lavorativa nei vari settori dal 1861 al 2011 (dati ISTAT)

Quindi, il numero dei lavoratori e/o di chi cerca lavoro aumenta, ma i posti di lavoro globalmente diminuiscono; l’unico settore che è in costante ascesa è quello dei servizi (altre), per il cui accesso è spesso necessaria un’istruzione superiore. La questione formazione dei lavoratori implicherebbe un ulteriore approfondimento; ad ogni modo senza una buona istruzione non c’è competitività lavorativa.

Si tratta di un cane che si morde la coda.

La proposta

Il fallimento del modello capitalistico impone una riforma del lavoro, che vada nel senso della diminuzione dell’orario lavorativo a parità di stipendio: lavorare tutti, lavorare meno, come uno slogan degli anni ’70 ci ricorda.

Il dibattito sulla durata della giornata lavorativa è stato affrontato l’ultima volta negli anni ’90, ed è arrivato il momento di riprenderlo per concretizzarlo in nuove regole e leggi.

In realtà il tema è stato discusso, ma nel senso di maggiore flessibilità, con conseguente assottigliamento dei diritti del lavoratore a favore di un potere contrattuale concentrato nelle mani di aziende e multinazionali, che hanno approfittato di una costellazione infinita di contratti a tempo determinato con migliaia di sigle che ormai non siamo neanche più in grado di ricordare. Soprattutto con l’avvento delle agenzie interinali e le finte cooperative in cui i soci non hanno voce in capitolo.

Il tempo del lavoro ci impegna in media per circa 10 ore, tra effettiva giornata lavorativa e tempo necessario a raggiungere il luogo di lavoro. Se a queste vengono aggiunte 8 ore di sonno, il tempo per una vita dignitosa e libera da pensieri è ridotta a 6 ore. Ore che poi vengono sottratte da impegni inderogabili che regolano la vita di tutti noi.

L’ideale sarebbe invertire la durata dei due tempi, ed accorciare la giornata lavorativa a 6 ore.

Qualcuno potrà obiettare: ma in 6 ore si produce di meno, non sono sufficienti!

Ecco allora una sfida aggiuntiva: valutare la produzione non in termini di ore lavorate, ma in termini di progetti completati, fatti nel miglior modo possibile con il tempo necessario.

In quest’ottica, bisognerà seriamente considerare l’opzione del lavoro da casa non più come un’alternativa, ma come una normalità quotidiana. La recente epidemia di COVID-19 ha infatti obbligato molte aziende a questa scelta e dimostrato che lo smart working, laddove il divario digitale lo permetta, è possibile. Ciò porterebbe dei miglioramenti in termini di qualità della vita non solo per gli stessi lavoratori (ad esempio genitori con bambini piccoli – è vero, lavorare con dei bambini piccoli può essere difficile, ma in questo modo non si rinuncerebbe né ai figli né al lavoro), ma anche per la popolazione tutta, poiché si avrebbe una diminuzione degli spostamenti quotidiani con una sensibile diminuzione dell’inquinamento cittadino. I Fridays for the Future passano anche da queste scelte.

L’avanzamento delle tecnologie in campo industriale fa presagire una diminuzione delle unità lavorative analoga a quella che ha subito il settore agricolo dal 1861 a oggi, portando ad un aumento generale della disoccupazione.

Se nel passato molti posti di lavoro erano relativi a mansioni che non richiedevano un’elevata specializzazione, con le nuove tecnologie bisognerà fare dei grossi investimenti anche nell’istruzione obbligatoria e superiore: infatti è ancora alto il livello di disoccupazione giovanile nella fascia 15-24, sia per quanto riguarda i soggetti di sesso maschile sia per quelli di sesso femminile (periodo 1977-2015, Figura 5).

Figura 5 – Tasso di occupazione (rosso), disoccupazione (blu) e attività (magenta) per maschi (sinistra) e femmine (destra) per la fascia d’età 15-24 anni nel periodo 1977-2015.

La diminuzione della giornata lavorativa porterebbe ad un aumento dei posti di lavoro, portando liquidità nelle tasche di molte famiglie italiane. Essendo stato diminuito il tempo del lavoro a favore di quello della vita, quella liquidità verrà spesa più facilmente, mettendo in moto la macchina dei consumi.

E poi, bisogna ricordare che non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere.

Un uomo ha bisogno del tempo per sé, per evitare l’alienazione che la società ci ha imposto fino ad oggi. E’ noto, infatti, che il PIL (Prodotto Interno Lordo) non è una misura della felicità della popolazione, ma della sua ricchezza. Tuttavia, alcuni paradossi sono dietro l’angolo: ad esempio, in caso di incidente stradale, il PIL aumenta per le spese che bisogna affrontare, ma saremmo veramente felici di accrescere l’economia nazionale essendo protagonisti di un incidente?

Le conclusioni

L’avanzamento tecnologico, l’inquinamento crescente, l’abbassamento della qualità della vita ci impongono una seria riflessione sul modello di lavoro attuale. Certo, non è un cambiamento che si può fare in 24 ore, va pensato e ragionato per bene, perché intorno al lavoro ruota l’economia di una casa, di una città, di uno Stato intero. Ad esempio, si potrebbe partire con una diminuzione di 15 minuti sulle 8 ore lavorative, per arrivare gradualmente alle auspicabili 6 ore.

E’ però sotto gli occhi di tutti la notevole disparità di mezzi che può avere un paese ricco da uno più povero e in forma minore, ma non meno importante, è evidente a tutti la notevole diseguaglianza tra un reddito medio e l’enorme ammontare di capitali sparsi nel mondo e che non producono beneficio per nessuno.

La pandemia di COVID-19 ha causato molti morti, e cambiato le nostre vite. Ha fatto tabula rasa sull’organizzazione quotidiana delle nostre attività, anche e soprattutto (e purtroppo) quelle economiche. E’ questo, allora, il momento di ridisegnare il futuro che vogliamo, e che sia basato sul rispetto dell’uomo e di quello della natura. L’economia è importante, ma allo stesso tempo secondaria. A questo proposito, Mohammed Yunus, economista e banchiere bengalese insignito del Premio Nobel per la Pace nel 2006, ha fatto delle interessanti riflessioni sull’argomento.

Tre mesi fa, il problema sociale a livello globale era il riscaldamento globale; vediamo allora il COVID-19 come un’opportunità per ripartire da zero.

Bisogna fare un cambio di passo, e mettere al centro di un nuovo progetto il tempo della vita.

Autrice: Annarita N.
Copertina: Francesco Pennanera

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