Storia. Etnografia. Formazione.
Introduzione
La serie di articoli che state per leggere è tratta da uno studio risalente al 2016, confluito nella tesi di laurea triennale dell’autore. Esso coincide con l’inizio degli studi pratici sul clown che l’autore stesso ha intrapreso, prima e dopo la stesura del contributo, e che andrebbe arricchito con le testimonianze e considerazioni maturate negli anni. Si è scelto, pertanto, di conservare qui la parte saggistica e di destinare ad un’altra serie un taglio più personale e coinvolto. Qualsiasi osservazione e contributo finalizzato a migliorarla sarà sempre ben accetto. Buona lettura. fdc.
Il testo fondamentale che ha preceduto e accompagnato la stesura della presente ricerca è il saggio di Enrico Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità1 e anti-struttura (2016), al momento l’unico e il più completo lavoro antropologico sulla figura del pagliaccio e in particolare sui processi di formazione dei clown all’interno di due metodi di riferimento: quello di Jacques Lecoq e la riscoperta del teatro fisico, da un lato; quello del clown Dimitri e lo studio delle clowneries classiche del circo, dall’altro.
Tale processo di formazione (definito clown-poiesi) si presenta in opposizione ai valori consolidati e imposti della formazione dell’essere umano (antropo-poiesi) all’interno della società capitalista, costituendo un possibile spazio liminale1 in cui ne vengono ribaltati e messi in discussione i valori.
Le interviste effettuate hanno dato pieno riscontro di questa possibilità, ampliando, come osserveremo, questo spazio alla quotidianità. Nell’immaginario collettivo il clown è il personaggio dal grande naso rosso, dal costume colorato spropositatamente largo, dal trucco esagerato, la cui occupazione principale è quella di intrattenere grandi e piccoli. Per quanto alcuni elementi effettivamente ricorrano ed abbiano una spiegazione storica, l’interpretazione più comune della figura del clown non è altro che il riflesso di una sua lettura parziale, legata all’ambito del commercio e del consumo, che non tiene conto delle sue radici, del contesto di origine e sviluppo e, dunque, misconosce la dignità delle forme d’arte performativa su cui si basa.
Tant’è che il nome è spesso usato, anche nelle sue traduzioni, in senso dispregiativo, riferito a qualcuno che si comporta in modo poco serio o credibile. D’altronde, è la sua stessa etimologia che cela un intimo disprezzo verso una categoria sociale. Clown in inglese (derivato di ‘colon‘) vuol dire “contadino”, che agli occhi degli esponenti delle classi cittadine agiate di metà Ottocento, divenne sinonimo di “sempliciotto”, “persona buffa”, che suscitava l’ilarità attraverso i suoi comportamenti goffi e insicuri.
Tuttavia, dire pagliaccio2 a chi fa il pagliaccio di mestiere, vuol dire sottintendere tutta una serie di elementi che in genere, pensando ai comici del circo, non vengono presi in considerazione. Il clown diventa arte quando l’incapacità e l’insicurezza vengono metabolizzate e riproposte in modo consapevole. Cosa tutt’altro che semplice, perché ciò presuppone una ricerca che va al di là del semplice senso estetico o dell’apprendimento delle tecniche “per far ridere”.
Come vedremo in modo approfondito nella parte storica di questa serie, l’arte del clown si avvale di forme teatrali che risalgono alla Grecia classica, passando per il mondo romano, per poi attraversare la temperie artistica dell’itineranza medievale e dei teatri rinascimentali. La strutturazione del moderno circo e gli sviluppi politici e sociali di XVIII e XIX secolo fanno il resto, finché, dopo le guerre mondiali, il clown, elevato a forma d’arte e poesia, entra a pieno titolo a far parte della formazione dell’attore nelle scuole di teatro, come quella di Lecoq.
Il punto di partenza
Ma cosa vuol dire fare il clown?
Questa la questione di partenza di questa rassegna. Domanda che, come vedremo, condurrà a nuove considerazioni che implicano il clown non solo come forma d’arte performativa di carattere comico, ma come criterio attraverso cui impostare gli studi teatrali, l’insegnamento e la vita stessa.
La prima testimonianza raccolta e analizzata è quella di Emmanuel Gallot-Lavallée, il quale dispiega, sotto i piedi del clown, un tappeto di considerazioni filosofiche ed etiche che accostano la sapienza occidentale alle filosofie orientali, l’arte pittorica alla poesia, le teorie evoluzioniste al teatro contemporaneo.
L’intervista inaugura la seconda parte della serie, quella “etnografica”, tuttora in redazione, in cui performer, insegnanti e artisti offrono la propria testimonianza per aiutarci e indirizzarci nella comprensione di un prodotto umano, il clown, che all’essere umano si rivolge mettendolo di fronte alla consapevolezza delle proprie potenzialità e debolezze.
1. Vedi anche liminare. Per riti liminari Van Gennep intende l‟insieme dei riti di passaggio all‟interno di una società che prevedono un periodo di distacco da essa che comprenda il sovvertimento dei valori che ad essa appartengano prima di rientrarvi in una nuova fase della propria vita culturale. Cfr. Van Gennep A., I riti di passaggio, trad. it. Remotti M.L., Bollati Boringhieri, Torino, 1981.
2. Pagliaccio, in italiano, ha attraversato la stessa mutazione di significato, passando attraverso l’immaginario della vita contadina e agreste.
Autore: Francesco Di Concilio
[…] VISIONI CLOWN – Ep.1Storia. Etnografia. Formazione. […]