La sua intera esistenza è una contraddizione. Non si sa chi sia, ma è famoso in tutto il mondo; condanna il mercato dell’arte, ma i collezionisti si contendono le sue stampe per cifre folli; disprezza il copyright, ma ha trasformato la propria opera in marchio.
Banksy è un paradosso che affascina e diverte, confessato con ironia: Mi dichiaro non colpevole di tradimento. Ma mi dichiaro innocente da una casa più grande di quella in cui vivevo prima. Un paradosso di cui, lo scorso settembre, l’artista stesso ha pagato le conseguenze.
Nel 2014 lo street artist aveva denunciato un’azienda dello Yorkshire, la Full Color Black, per aver utilizzato come immagine di un biglietto di auguri una delle sue opere più celebri. Si tratta del Flower Thrower (Love is in the Air). Rappresentato per la prima volta a Bristol nel 1998 e riproposto nel 2005 a Gerusalemme, il murale raffigura un manifestante durante una sommossa, armato di un mazzo di fiori. L’opera, che ha una fortissima potenza comunicativa e che sin da subito è divenuta un simbolo e un invito alla protesta pacifica, era stata trasformata da Banksy in marchio nel 2014. Questa soluzione, tuttavia, non ha convinto l’Ufficio per la proprietà intellettuale dell’Unione Europea (Euipo), che il 14 settembre 2020 ha annullato la denuncia dello street artist: Banksy, finché deciderà di rimanere anonimo e di dipingere sulle proprietà di altre persone, non potrà avere alcun tipo di pretesa di paternità sulle sue opere. Inoltre, esporre il proprio lavoro in un luogo pubblico equivale per Euipo a una rinuncia alla tutela autoriale. L’artista è stato dunque costretto a pagare le spese legali della Full Color Black, che è risultata vincitrice della contesa legale.
La vicenda e il suo esito sono tutt’altro che banali, e stimolano una riflessione sul delicato e significativo rapporto esistente tra street art e proprietà intellettuale. L’artista di strada, infatti, per definizione agisce nell’anonimato e spesso lo fa illegalmente. Ma è un artista a tutti gli effetti, spesso più popolare e più democratico di chi espone le proprie opere in mostre e musei. Come tutelare il suo lavoro? È davvero impossibile, come il provvedimento europeo sostiene, conciliare il diritto all’anonimato con il diritto d’autore? A tutto questo si aggiunge anche una seconda questione: la proprietà dell’opera. Di chi è il murale? Di chi l’ha dipinto o di chi possiede la parete su cui è stato realizzato? Come certificare tutto questo? Sono problemi, questi, a cui la sentenza del 14 settembre non ha dato risposte adeguate. In un momento storico in cui la street art ha raggiunto un livello qualitativo e una considerazione critica e di pubblico senza precedenti, è necessaria una valutazione approfondita del fenomeno, a cui devono necessariamente seguire risposte ragionevoli e ponderate.
Nel frattempo, a Banksy l’anonimato costa. E non poco!
Autrice: Martina Colombi