#13.4 Note a Margine – Non al denaro non all’amore né al cielo

Se ti sei perso la seconda parte ecco dove puoi trovarla #13.3 Note a Margine – Introduzione all’album.


DISCLAIMER

L’intera produzione di Fabrizio De André pone un forte accento sul testo e sulla scelta oculata delle parole da utilizzare. Un ascolto superficiale sarebbe inutile e totalmente non produttivo. I nostri sono solo degli spunti di riflessione sulle tematiche proposte in ogni brano. Vi invitiamo a fare vostro ogni brano, ascoltandolo più e più volte, cercando di immedesimarvi in ogni personaggio, al fine di provare i suoi stessi sentimenti e sensazioni. Siamo convinti, infatti, che solo in questo modo è possibile comprendere a pieno l’opera di questo immenso Artista.

Il ciclo dell’invidia

L’album Non al denaro non all’amore né al cielo fu pubblicato nel 1971 per l’etichetta Produttori Associati; gli arrangiamenti furono firmati da Nicola Piovani, e molti dei musicisti che parteciparono alla registrazione dell’album facevano parte dell’orchestra di Ennio Morricone.

All’interno di questo lavoro, composto da 8 brani introdotti da La collina, è possibile rintracciare due macrogruppi tematici: infatti, i primi quattro sono incentrati sulla tematica dell’invidia, mentre le restanti quattro hanno come fil rouge la scienza.

Oggi vi presentiamo il primo macrogruppo, di cui fanno parte La collina, Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore.

La collina

La collina” oltre ad essere il primo brano dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo è anche la prima poesia dell’Antologia, e non si discosta molto dal testo originale di E. L. Masters.

La canzone ci conduce per mano lungo i viali del cimitero, ci dona curiosità verso quei morti, ma soprattutto ci dà la possibilità di guardare a quegli stessi morti con pietas cristiana, trasformandoci, forse, in persone colpevoli di essere ancora in vita e di non aver dato, con i nostri gesti e parole, riscatto a quelle persone morte sul lavoro, in guerra, per aborto.[1]

La forza del brano, come ogni testo di De André, è quello di saper raccontare con poche parole, scelte accuratamente e non a caso, la storia di ogni morto: si parla allora di morti sul lavoro (Ermen, Charlie), delle condizioni delle prigioni (Tom), di violenza sulle donne (Ket, Maggie), di aborti clandestini (Ella), di morti per tumore (Edith), di emigranti morti lontano da casa (Lizzie).

Ma i versi più forti De Andrè li riserva per condannare la guerra ed i suoi innumerevoli ed ingiustificati morti, e sembra quasi di sentire il pianto straziante e disperato di chi sa bene che un proprio caro dorme sulla collina, con un corpo dilaniato ed insieme ad una bandiera che, di fronte alla morte, non ha più nessun significato né ruolo, se non quello di cercare di tenere insieme, in un tentativo disperato che possa discolpare i generali, dei brandelli di carne:

Dove sono i generali
Che si fregiarono nelle battaglie
Con cimiteri di croci sul petto?
Dove i figli della guerra,
Partiti per un ideale,
Per una truffa, per un amore finito male?
Hanno rimandato a casa
Le loro spoglie nelle bandiere
Legate strette, perché sembrassero intere.

Per tutto il brano si parla di morti premature; l’unico personaggio che invece sembra morire di vecchiaia è Jones il suonatore, a cui fanno riferimento gli ultimi versi de La collina e con cui si chiude tutto l’album. Fanno riferimento al suo distacco da alcuni sentimenti terreni i versi che danno il titolo all’intero album:

Lui che offrì la faccia al vento,
La gola al vino, e mai un pensiero
Non al denaro, non all’amore né al cielo.

Il brano si chiude richiamando le note iniziali del brano, che sembrano uscire da un film con GianMaria Volontè e musicato da Ennio Morricone.

Tutti, su quella collina, diventano uguali, ed il verso principale “…dormono, dormono, sulla collina…” richiama immediatamente la poesia di Totò “’A Livella”, dove un ricco si lamenta di essere stato seppellito accanto ad un povero pezzente, ma alla fine quest’ultimo gli dice che, di fronte alla morte, tutti diventano uguali, e che quindi “…‘A morte ‘o ssaje ched’e”…. è una livella.

Un matto

Il nome di quello che De André chiama semplicemente Un matto è Frank Drummer.

Dal punto di vista musicale, la tonalità maggiore del brano e la sua aria allegra rispecchia il carattere e la spensieratezza tipiche dello scemo del villaggio.

Forse non si tratta nemmeno di un matto, ma di una persona che, forse impacciata, forse ignorante, non riesce a trovare le parole per comunicare, per esprimere tutto quello che vorrebbe dire.

Potrebbe essere una situazione simile a quella che provano tutte le persone che si trovano a vivere non nel posto dove sono nati, e dove magari si parla una lingua diversa da quella con la quale loro avevano pronunciato le loro prime parole.

Questa incapacità di esprimersi viene allora derisa da tutti.

Ritrovatosi isolato ed emarginato, un matto cerca di farsi notare ed emergere imparando l’enciclopedia a memoria. Deriso da tutti anche dopo la sua scomparsa, muore in manicomio, da solo, ma è proprio attraverso la morte che il matto riesce ad essere libero, acquisendo la libertà di dire ciò che vuole, con le parole che vuole, senza temere più il giudizio altrui. [2]

La morte ha dato libertà ad una persona che si sentiva imprigionata, sola, emarginata, e che da morta può inventare parole e dare voce e colore al proprio mondo interiore.

Un giudice

De Andrè descrive Selah Lively come Un giudice rancoroso e vendicativo.

La vendetta per gli scherni subiti per i propri difetti fisici è al centro di questo brano.

Il ritmo incalzante esprime in pieno il senso di frustrazione di questo personaggio.

La sua vendetta verso chi si burlava di lui per la sua bassa statura si esplica dapprima con un riscatto sociale, dato che attraverso lo studio un giudice riesce ad acquisire una posizione sociale di rispetto; successivamente quella stessa posizione di rispetto si trasforma in arma di vendetta perché conferisce la possibilità di disporre, secondo la propria voglia e la propria coscienza, della vita degli altri.

Non si parla di un giudice imparziale, ma di una persona che abusa del proprio potere per fini personali.[3]

Alla fine ad essere oggetto di scherno non è l’aspetto fisico, ma la posizione sociale: chi si prende gioco degli altri lo fa solo perché chi viene deriso è più in basso nella scala sociale, ma quando le cose si invertono, cade il silenzio e lo scherno sparisce.

Un blasfemo

Wendell P. Bloyd è il protagonista di questa canzone.

La religione e l’ateismo sono al centro del brano, che racconta di un uomo arrestato non per qualche crimine commesso e ben definito dalla legge, ma in quanto blasfemo, con un credo che è diverso da quello degli altri.

Nel testo rimane la descrizione originale del risentimento di Dio verso Adamo, che passa attraverso la Vicenda narrata nel libro della Genesi della “mela proibita”, simbolo di tutto ciò che l’uomo non doveva conoscere, secondo il suo creatore. La punizione per l’uomo per aver peccato di presunzione è quella di vivere sulla terra, lontano dal “giardino incantato” dell’Eden, in un mondo privo di illusioni e pieno di contraddizioni generati dallo scontro tra bene e male. [4]

Quando l’uomo ha osato metter in dubbio l’autorità divina, Dio ha usato il suo potere s per fermare la possibile ascesa dell’uomo stesso, per paura che egli potesse equipararsi a Lui stesso. L’ha fermato giocando non ad armi pari, perché si sa che il tempo e le stagioni non sono un’invenzione umana.

La musica del brano è allo stesso tempo bucolica (uso degli strumenti a fiato), raffinata, quasi religiosa (uso dei violini); in particolare, l’uso degli strumenti ad arco ha lo scopo di suscitare in noi sentimenti di compassione e vicinanza al blasfemo. Il brano lascia libero spazio alla musica proprio dopo lo scontro tra uomo e dio, ed offre a chi ascolta un’occasione di riflessione.

Mi cercarono l’anima a forza di botte” esprime in maniera perfetta la perfidia, la cattiveria e la violenza che possono essere scatenare da chi professa di adempiere al rispetto dell’ordine pubblico.  

L’anima è qualcosa di immateriale e materiale allo stesso tempo: non la vediamo, non possiamo toccarla né sentirla, ma sappiamo che c’è, e che raccoglie la nostra parte più intima, nascosta dal nostro corpo e da esso protetta. “Cercare l’anima a forza di botte” significa allora commettere un atto di una violenza inaudita, significa privare l’anima di un individuo della sua ultima protezione; allo stesso tempo, però, sappiamo che l’anima non è un oggetto, quindi non può essere cercato, perciò tutta la violenza esercitata sul blasfemo è doppiamente ingiustificata.

Chi alza la voce, chi canta fuori dal coro, chi osa mettere in dubbio l’autorità viene punito per aver avuto coraggio: è questo il vero crimine commesso dal blasfemo.

Un malato di cuore

Cominciai anche io a sognare insieme a loro, poi l’anima d’improvviso prese il volo.
E L’anima d’improvviso prese il volo, ma non mi sento di sognare con loro.
No, non mi riesce di sognare con loro.

Questo brano chiude il primo gruppo di brani dell’album, opponendosi ai primi tre perché non è un brano negativo e pieno di tensioni.

Il malato di cuore, nonostante la sua condizione lo privi di tante esperienze e possibilità, non ha invidia per gli altri, sfida sé stesso andando oltre le proprie possibilità.

Un malato di cuore può essere interpretato con una chiave di lettura aggiuntiva: chiunque non ha il coraggio di buttarsi nella mischia, di rischiare, di vivere la vita e l’amore a pieno è un malato di cuore, perché frena i propri desideri per semplice paura.

Si tratta di un chiaro invito per l’ascoltatore ad osare, a cercare la felicità tramite il rischio, piuttosto che affidare la propria vita alla razionalità.[5]

Anche la musica invita alla vita, ci suggerisce di aprirci al mondo: a questo scopo vengono introdotti dei vocalizzi di morriconiana memoria.


[1][2][3][4][5] M. Mugnai, California Italian Studies, 6(2), 2016.

Autrice: Annarita N.
Cover design: Ivo Guderzo

#13.3 Note a Margine – Non al denaro non all’amore né al cielo

Se ti sei perso la seconda parte ecco dove puoi trovarla #13.2 Note a Margine – Fabrizio De André e la sua opera


L’album Non al denaro non all’amore né al cielo fu pubblicato nel 1971 per l’etichetta Produttori Associati; gli arrangiamenti furono firmati da Nicola Piovani, e molti dei musicisti che parteciparono alla registrazione dell’album facevano parte dell’orchestra di Ennio Morricone.

Questo lavoro di De André contiene al suo interno molti elementi della chanson francese, ovvero storie “piccole”, chitarra al centro della musica, voce profonda che più che cantare, racconta cantando. Ciò rispecchia il processo creativo che ha portato il cantautore genovese a comporre le sue canzoni, ovvero da un testo, da una storia, nasce la musica, quindi la canzone. Questo conferma che la storia cantata e la parola sono al centro di tutto. Ogni parola viene quindi ricercata attentamente, in questo caso per permettere ai morti di raccontare con dignità la loro storia; ogni strofa non è lasciata al caso, ma progettata con attenzione e cura.[1]

Il processo che ha dato vita alla stesura dell’album parte da lontano, cioè da epitaffi scritti su tombe di marmo, che vengono trasformate prima in poesia, poi tradotte in italiano, ed infine musicate, anche se questo termine minimizza il lavoro fatto da De André sia a livello di parola che di musica. Si tratta di un percorso che si stringe e poi si amplia ancora: in primis perché E. L. Masters condensa intere vite vissute in poche parole o frasi, e poi l’ampliamento è ottenuto con l’aggiunta di una terza dimensione, quella musicale.[2]

A livello sonoro, uno dei riferimenti di quest’album può essere rintracciato sicuramente nell’opera di Bob Dylan, ovvero nella folk music, dove si descrivono in maniera concreta la vita e la morte di quelle persone la cui vita e morte è nascosta dietro una lastra di marmo.[3]

La forza e l’universalità del lavoro di E. L. Masters prima e di De Andrè dopo, sta nella descrizione di personaggi universali e senza tempo, e che per questa ragione ben si adattano a raccontare le crescenti contraddizioni nella società italiana del boom economico che seguì la Seconda Guerra Mondiale; infatti, l’album di De André fu pubblicato nel 1971, ed il contesto sociale era quello di lotte operaie che si contrapponevano ad una borghesizzazione generale della società, di lotte studentesche e della mancata risoluzione dei problemi da loro sollevati, di crescite demografiche ed industriali che facevano nascere ed emergere nuovi disequilibri sociali, con un accentuarsi della dimensione individualistica della società industrializzata e capitalista.

E’ chiaro, quindi, un intento di denuncia; tuttavia, De André non si schierò mai apertamente per una parte o per l’altra, ma è possibile comprendere il suo pensiero espresso in maniera chiara nella sua opera: il ridare dignità agli ultimi attraverso la narrazione della loro storia.

Delle iniziali 244 poesie, De Andrè fu costretto per forza di cose a farne una rigidissima selezione. Il brano che apre l’album è “La collina”, e funge da introduzione al luogo ed al mondo dei defunti ai quali verrà data voce nelle successive otto canzoni. E’ possibile rintracciare due macrogruppi tematici all’interno di questi otto brani: infatti, i primi quattro sono incentrati sulla tematica dell’invidia, mentre le restanti quattro hanno come fil rouge la scienza. Come una vera e propria matrioska, all’interno di questi macrogruppi è possibile fare un ulteriore raggruppamento: infatti, dopo 3 personaggi negativi ne viene presentato uno positivo, perché ogni personaggio positivo redime gli altri.[4]

Ogni personaggio racconta da sé la propria storia, richiamando alla memoria i personaggi della Divina Commedia di Dante.[5]

Al contrario dell’opera di E. L. Masters, in quella di De André ogni personaggio non viene presentato con il proprio nome e cognome, ma con la propria professione preceduta da un articolo indeterminativo: un espediente narrativo che serve ad avvicinare all’ascoltatore alla storia, che viene così svincolata dall’individualità del singolo personaggio, rendendola universale ed eterna.

Per tutto l’album, l’ascoltatore viene velatamente invitato a scrollarsi di dosso ogni regola, ogni sovrastruttura mentale, ogni schema, ogni possibilità di pregiudizio, per essere liberi di vedere le cose per quello che sono.

Per tutto l’album, si possono chiaramente ascoltare echi di Ennio Morricone, si può chiaramente ascoltare una colonna sonora di un bellissimo spettacolo teatrale dove ogni morto parla di sé stesso chiedendo soltanto dignità.


[1] F. Ivaldi, ATEM, 1, 2019. https://atem-journal.com/ojs2/index.php/ATeM/article/view/2019_1.05

[2] M. Leone, The Diaphanous Translation: Fabrizio De André sings Edgar Lee Masters, 2019 (https://iris.unito.it/handle/2318/1725870?mode=full.2376#.X98rRhZ7lPY)

[3] M. Leone, The Diaphanous Translation: Fabrizio De André sings Edgar Lee Masters, 2019 (https://iris.unito.it/handle/2318/1725870?mode=full.2376#.X98rRhZ7lPY)

[4] M. Mugnai, California Italian Studies, 6(2), 2016.

[5] M. Mugnai, California Italian Studies, 6(2), 2016.

Autrice: Annarita N.
Cover design: Ivo Guderzo

#13.2 Note a Margine – Non al denaro non all’amore né al cielo

Se ti sei perso la prima parte ecco dove puoi trovarla #13.1 Note a Margine – Masters e la letteratura Americana in Italia

Fabrizio De André e la sua opera: una breve (brevissima) introduzione

L’album di Fabrizio De André, collegato all’Antologia di Masters, è Non al denaro, non  all’amore, né al cielo, e rappresenta, rispetto all’opera del poeta americano, una trasposizione e non un’adattamento.[1]

De André è stato uno degli autori più contestati del panorama culturale per tematiche scelte; ad esempio, il suo brano “Si chiamava Gesù” venne censurato dalla RAI. Proprio per la sua poetica, per i personaggi che descrive, per i luoghi dove si svolgono le vicende da lui cantate o declamate, è stato paragonato da molti a Pier Paolo Pasolini.[2]

La vicinanza più evidente tra Pasolini e De André sta nei luoghi in cui cercare il riscatto: i bassifondi di quelle città non contaminate dal falso perbenismo borghese e dalla civiltà dei consumi

(Paolo Talanca, Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2015)

Curt Sachs, etnomusicologo tedesco, ha affermato che le canzoni di De André non sono patogeniche, nate cioè, dall’emozione, ma piuttosto logogeniche. Da tutta l’opera di De André emerge chiaramente la consapevolezza dell’uso della parola, scelta con cura per aderire completamente alle finalità espressive.

Tutto ciò si pone in forte contrasto con la struttura e la melodia della tipica canzone italiana nata e diffusasi al termine degli anni 50, e caratterizzata da una certa patogenicità piuttosto che dalla logogenicità.[3]

Le canzoni di De André scuotono le coscienze (o almeno dovrebbero) e conducono ad una riflessione generale sull’isolamento di alcuni personaggi che vivono ai margini della società.[4]

“(…il presepio sociale dipinto nell’opera di De Andrè descrive un mondo…) laico e disincantato, abitato da prostitute, da suicidi, da ladri e da tutti coloro i quali, per costrizione o vocazione, si trovavano a vivere ai margini del quieto modus vivendi dei pensanti. Un mondo di vittime, “colpevoli” per lo sguardo scandalizzato della borghesia […] che non può essere riscattato né dalla Chiesa né dallo Stato, ma solo dal romanticismo degli eretici, appunto: i soli che sanno riconoscere storia e dignità.”

(Bigoni e Giuffrida (a cura di), Fabrizio De André, 24.)

[1] M. Leone, The Diaphanous Translation: Fabrizio De André sings Edgar Lee Masters, 2019 (https://iris.unito.it/handle/2318/1725870?mode=full.2376#.X98rRhZ7lPY)

[2] M. Mugnai, California Italian Studies, 6(2), 2016.

[3] F. Ivaldi, ATEM, 1, 2019. https://atem-journal.com/ojs2/index.php/ATeM/article/view/2019_1.05

[4] M. Mugnai, California Italian Studies, 6(2), 2016.

Autrice: Annarita N.
Cover design: Ivo Guderzo

<<< La terza parte di Note a Margine disponibile venerdì 7 maggio >>>

#13.1 Note a Margine – Non al denaro non all’amore né al cielo

Masters e la letteratura Americana nel dopoguerra italiano

Se oggi conosciamo l’Antologia di Spoon River lo dobbiamo essenzialmente all’opera di traduzione di Fernanda Pivano, lavoro culminato nella pubblicazione dell’antologia in versione italiana il 9 marzo 1943 per la casa editrice Einaudi.[1] Grazie poi al successivo lavoro di De André, il libro ha avuto 72 edizioni, con 5 milioni di copie vendute (dati del 2009); in occasione del centenario dalla sua prima pubblicazione celebratosi nel 2015, la Mondadori e la Feltrinelli hanno immesso sul mercato due edizioni nuove, con note, commenti e traduzioni mai pubblicate.[2]

Questa raccolta di poesie, pubblicata per la prima volta come testo unico nel 1915, vide in realtà la prima luce tra il 1914 e l’anno successivo sul giornale Mirror. Ogni poesia, costruita su versi liberi, rappresenta la storia di un personaggio, anzi, di una persona seppellita nel cimitero di Spoon River. Nella sua ultima versione pubblicata nel 1916 l’Antologia conteneva 244 componimenti, che in realtà sono dei veri e propri epigrafi. Il primo componimento, La collina, fa da introduzione all’ambiente del cimitero e da anticamera alle storie declamate successivamente. In quest’opera, E. L. Masters riesce a fare riferimento a molte categorie umane, lavorative e non, dando vita ad un mosaico della società dove ognuno è parte di un tutto, e tutti condividono la fine della propria storia.[3]

Una piccola nota: i più di noi saranno abituati a pensare ad una traduzione come una trascrizione nella propria lingua da una lingua diversa fatta con traduttori automatici disponibili gratuitamente su internet. Bene, la traduzione non è questo. Traduzione è immergersi totalmente in una lingua, nella sua cultura, ed uscirne fuori con una veste diversa, ma fedele all’idea originaria. Un superlativo esempio di traduzione è il lavoro fatto da Umberto Eco con Esercizi di stile di Raymond Queneau.[4]

L’interesse italiano verso la letteratura americana durante gli anni ‘30-’40 ha un ruolo cruciale e molto simbolico, ovvero quello di aprire uno spiraglio nella cultura fascista chiusa ed autoreferenziale, e avere di conseguenza la possibilità di scoprire cose nuove, conferendo alla letteratura il potere della libertà.[5]

A proposito di letteratura e fascismo, per poter passare l’esame della censura, la traduzione della Pivano fu presentata come Antologia di S. River, facendo intendere che quella S. stava per San.[6]

L’impressione che la Pivano ebbe dallo studio dell’Antologia fu la seguente:

Non c’è dubbio che per un’adolescenza come la mia, infastidita dalla roboanza dell’epicità a tutti i costi in voga nel nostro anteguerra, la semplicità scarna dei versi di Masters e il loro contenuto dimesso, rivolto ai piccoli fatti quotidiani privi di eroismi e impastati soprattutto di tragedia, erano una grossa esperienza; e col tempo l’esperienza si approfondì individuando, coi temi di quel contenuto, il mondo che lo ispirava: la rivolta al conformismo, la brutale franchezza, la disperazione, la denuncia della falsa morale, l’ironia antimilitarista, anticapitalista, antibigottista [C2] : la necessità e l’impossibilità di comunicazione. In questi personaggi che non erano riusciti a farsi “capire” e non avevano “capito”, dal loro dramma di poveri esseri umani travolti da un destino incontrollabile, scaturiva un fascino sempre più sottile a misura che imparavo a riconoscerli; e per riconoscerli meglio presi a tradurli, quasi per imprimermeli in mente.”[7]

Tra la Pivano e la pubblicazione per Einaudi, però, c’è stato un altro personaggio chiave, ovvero Cesare Pavese: è lui, infatti, che lesse il primo manoscritto italiano dell’Antologia e lo propose per la pubblicazione all’Einaudi.[8]

In America il libro fu la raccolta di poesia più venduto fino a quel momento. E come ogni cosa di successo, fu amato ed odiato, accusato di pornografia, di essere rozzo, poco musicale, mentre altri definivano l’opera di Masters dignitosa, reale, piena di descrizioni vitali. Non c’è musicalità, perché non serve a creare la poesia dalla poesia, a quella ci pensa già la tragicità della vita delle persone sepolte presso il fiume Spoon.

Nell’opera di Masters si fondono insieme due mondi diversi, quello della campagna e quella della città, ma che in fondo si assomigliano perché le meccaniche dei rapporti umani e della psicologia delle persone sono sempre le stesse.

Inizialmente di professione avvocato, E. L. Masters [C4]  abbandonò il suo lavoro in seguito al successo della sua Antologia, ma morì in povertà nel 1950, poiché i ricavi della sua opera iniziavano a scemare, ed i proventi degli altri suoi lavori, insieme a quelli di alcune conferenze, non erano sufficienti a dargli uno stile di vita decente.

La raccolta dell’Antologia è composta da una serie di epitaffi perlopiù auto-enunciati dagli stessi defunti, seppelliti per la maggior parte nel cimitero di Petersburg (Virginia, USA), tuttavia i paesaggi descritti sembrano confondersi con quelli di Lewistown (Illinois, USA), dove Masters visse la sua adolescenza, città che è realmente attraversata dal fiume Spoon.

Nel secondo decennio del secolo scorso, la divisione tra le classi sociali americane iniziava ad acuirsi, ma soprattutto la porzione di lavoratori ed operai iniziava a farsi più numerosa rispetto a quella dei ricchi industriali. Ed è proprio questo dualismo ad essere al centro della letteratura americana dell’epoca; in questo contesto Masters s’inserisce raccontando le piccole storie e la psicologia degli uomini e delle donne che vivono ai margini della città, ai margini della società, ai margini della vita.

In uno dei suoi scritti, Pavese dice dell’Antologia: “Sono rarissime le caricature polemiche in Lee Masters. L’ardore di ognuna delle centinaia di anime sepolte in Spoon River si è fatto il suo ardore, e veramente il poeta ci parla per la bocca di ognuna.”

Si da voce a “mariti scontenti, mogli adultere, scapoli scontrosi e bambini nati morti”, con uno stile asciutto e diretto, simile ad una confessione spontanea resa nell’aula di un tribunale. Ogni morto restituisce alla vita il proprio racconto.[9] 


[1] Antologia di Spoon River, Einaudi, ed. 1993.

[2] J. Van Wagenen, Forum Italicum, 2019, 53, 679-698.

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Antologia_di_Spoon_River

[4] Antologia di Spoon River, Einaudi, ed. 1993.

[5] J. Van Wagenen, Forum Italicum, 2019, 53, 679-698.

[6] [6] J. Van Wagenen, Forum Italicum, 2019, 53, 679-698.

[7] Antologia di Spoon River, Einaudi, ed. 1993.

[8] Antologia di Spoon River, Einaudi, ed. 1993.

[9] Antologia di Spoon River, Einaudi, ed. 1993.

Autrice: Annarita N.
Cover Design: Ivo Guderzo

Preghiera in gennaio – Fabrizio De Andrè

Preghiera in gennaio - InTheMoodFor. Verità per Giulio Regeni

Il 27 gennaio 1967 il corpo senza vita di Luigi Tenco viene ritrovato nella camera 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo da Dalida. I due parteciparono quell’anno, anzi proprio in quei giorni, al festival di Sanremo presentando separatamente la canzone “Ciao amore, Ciao”. Le circostanze della morte di Tenco sono ancora oggi poco chiare; sono state fatte tutte le ipotesi, dal suicidio al delitto passionale, passando per denunce di scommesse clandestine su Sanremo stesso e collegamenti con la mafia marsigliese. Quello che sappiamo di sicuro è che quel giorno abbiamo tutti perso un uomo con una grande sensibilità artistica.

Leggi tutto

La domenica delle salme

Per questo 5 di aprile 2020, la rubrica mensile “In the Mood for…” presenta “La domenica delle salme” di Fabrizio De André. Questa volta non ne spiegheremo il contenuto ma lo lasciamo alla vostra libera interpretazione.

Il video che vedrete è stato diretto da Gabriele Salvatores, la chitarra di Michele Ascolese, violino e kazoo di Mauro Pagani. Di seguito il testo.

Leggi tutto