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dipinto Archivi - ErrareUmano

Gente che par di conoscere

gente che par di conoscere, Michelangelo Merisi, Caravaggio, Deposizione

La Deposizione di Caravaggio in Pinacoteca Vaticana

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (Milano 1571 – Porto Ercole 1610), Deposizione, 1602-1603, olio su tela, Roma, Pinacoteca Vaticana

Nella Chiesa Nuova alla man dritta c’è del suo nella seconda cappella il Christo morto, che lo vogliono seppellire con alcune figure, a olio lavorato; e questa dicono che sia la miglior opera di lui…

Così Giovanni Baglione racconta la Deposizione di Caravaggio (Giovanni Baglione, Le vite de’ pittori scultori et architetti, Roma 1642, p. 137). È una delle opere più amate dell’artista, soprattutto dai contemporanei, che la consideravano il suo massimo capolavoro. Dipinta tra il 1602 e il 1603, era stata commissionata da Girolamo Vittrice, esponente di una delle famiglie più in vista di Roma, per la chiesa di Santa Maria in Vallicella. Qui rimase fino al 1797, quando i commissari francesi di Napoleone la rubarono e trasferirono a Parigi per esporla al Musée Napoleon: è l’unica opera di Caravaggio portata via dalle chiese di Roma. Fortunatamente venne restituita poco dopo, per poi entrare nella Pinacoteca Vaticana nel 1816.

Il dipinto appartiene agli ultimi anni romani dell’artista. Caravaggio era giunto a Roma nel 1594; inizialmente lavorava dipingendo nature morte e opere decorative e viveva in condizioni economiche precarie. Nel 1597 incontrò il cardinale Francesco Maria Del Monte, che diventò il suo protettore e uno dei suoi più importanti committenti. Grazie a lui, entrò nelle grazie dei cardinali e dell’alta società romana e riuscì ad affermarsi. Nel 1599 ottenne la sua prima commissione pubblica: tre tele dedicate a San Matteo nella cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi. Subito dopo arrivò la richiesta di due pale (Crocifissione di San Pietro, Conversione di San Paolo) per la Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo. Ma Caravaggio non sarebbe rimasto a lungo a Roma: più volte denunciato per il suo carattere turbolento, che lo portava facilmente a insultare, malmenare o minacciare rivali e colleghi, e arrestato per il possesso di armi, nel 1605 si rifugiò per tre settimane a Genova, dopo aver ferito gravemente un notaio in un duello. Il fatto più grave avvenne però il 28 maggio 1606, nel Campo Marzio: a causa di una discussione scoppiata per un fallo commesso durante una partita di pallacorda (una sorta di tennis), l’artista ferì a morte il rivale Ranuccio Tommasoni. Con Ranuccio non contendeva soltanto la partita, ma anche una donna. Condannato alla decapitazione, fu costretto a scappare da Roma: si rifugiò a Napoli, poi a Malta, in Sicilia e di nuovo a Napoli.  Nel 1610 arrivò la notizia che il Papa Paolo V avrebbe revocato la sua condanna a morte. Si preparò così a partire, ma non riuscì mai ad arrivare a Roma: morì durante il viaggio di ritorno, probabilmente per un’infezione intestinale non curata. Era il 1610.

Ma torniamo alla nostra opera

Caravaggio raffigura un momento particolare della Passione di Cristo: non è il Seppellimento, né la Deposizione tradizionale. Il corpo, infatti, non viene calato dalla tomba né tolto dalla croce, ma viene adagiato da Nicodemo e Giovanni sulla Pietra dell’Unzione, detta lapis untionis: un letto marmoreo utilizzato per i riti funerari. L’artista raffigura dunque un rito della tradizione giudaica: il corpo di Cristo, appena disceso dalla croce, verrà spogliato, disteso sulla grande pietra ben visibile per essere lavato, unto, profumato.

Intorno al corpo di Cristo si dispongono la Vergine, Maria Maddalena, Giovanni, Nicodemo e Maria di Cleofa, che alza le braccia e gli occhi al cielo in un gesto di altissima tensione drammatica.

Nicodemo, il giudeo misericordioso che schiodò Gesù dalla croce e lo depose nel sepolcro, è qui presentato con lo sguardo attonito e incredulo. Dietro di lui ci sono i testimoni storici della vicenda: c’è il grido disperato di Maria di Cleofa, che alza le braccia al cielo; c’è Maria Maddalena, che piange sommessamente; c’è Maria, con il volto impietrito dal dolore; c’è Giovanni l’Evangelista, che osserva per l’ultima volta il corpo dell’amico. Il corpo di Cristo è di una bellezza intatta, ma livido: è già evidentemente abitato dalla morte, come dimostra il nero cadaverico della mano abbandonata. Tutti i personaggi non sono idealizzati, ma sono concreti e ordinari: proprio in questa concretezza risiede la vera forza del dipinto di Caravaggio.

Caravaggio è un formidabile innovatore, per due ragioni in particolare

È il primo a usare la luce come disvelamento.
La prima cosa che lo spettatore osserva in questo dipinto è la resa della luce. La scena sembra avvenire nella notte: c’è buio, lo sfondo è indefinito e un fascio di luce illumina i protagonisti della scena. L’effetto è molto drammatico, quasi teatrale (non a caso Giovanni Testori definì Caravaggio lo Shakespeare della pittura nel 1955!).

Ma la vera novità è l’intuizione che rappresentare la realtà così com’è sia la più grande rivoluzione in pittura. In questo senso, per quanto per tutto il Novecento la vita turbolenta di questo personaggio abbia affascinato generazioni di studiosi e abbia fatto sì che fosse considerato un peintre maudit (pittore maledetto), Caravaggio risponde perfettamente alle idee e alle sensibilità più avanzate dell’estetica cristiana del suo tempo. All’inizio del Seicento siamo infatti nel pieno della Controriforma, che invitava gli artisti ad aderire alla lettera alle Scritture e ad attualizzarne il messaggio, così da renderlo a tutti comprensibile. E così è in Caravaggio, che tanto sconvolgeva i suoi contemporanei e che continua a sconvolgere.

Meravigliosa la descrizione che fa di questo dipinto Roberto Longhi, uno dei più importanti storici dell’arte del Novecento:

Portato così vicino a noi, tutto ci torna chiaro, vivido, incombente: straziante nei colori, a bella posta discordi di rosso, verde, arancione; e azzurro marino nella Madonna incravattata come una ‘pleureuse’ medievale, come una ‘monaca di casa’. Gente che par quasi di conoscere …

Roberto Longhi

Autrice: Martina Colombi
Cover Design: Valerio Ichikon Salzano