L’uomo con il garofano rosa

Andrea Solario, Ritratto di gentiluomo con garofano, 1495 circa, Londra, The National Gallery, inv. NG 923

Collo taurino, sguardo sicuro, mani vigorose. Il portamento fiero, di chi è consapevole di essere importante, e l’abito rosso fanno pensare che questo personaggio sia un magistrato veneziano. Il berretto e la stola, ossia la striscia di tessuto nero sul petto, erano infatti utilizzati in laguna per indicare maturità e importanza ed erano indossati dai togati della Serenissima. L’austerità e l’imponenza dell’uomo contrastano nettamente con il fiore che egli tiene tra le mani, con un gesto quasi impacciato: un piccolo garofano rosa, che funziona come un ossimoro e ha il potere di addolcire e intenerire una figura così severa.

In realtà, questo fiore è portatore di un valore simbolico.

Tra Quattro e Cinquecento era consuetudine che, nel giorno del matrimonio, le spose nascondessero nel proprio abito un fiore e gli sposi dovessero trovarlo. Il dipinto alluderebbe dunque a questa occasione, a cui fa riferimento anche il grande anello blu e oro che l’uomo porta al pollice sinistro. È dunque probabile che il personaggio ritratto avesse voluto fissare, commissionando l’opera, un momento molto importante per la sua vita.

L’autore del dipinto, Andrea Solario, era originario di Milano, ma aveva lavorato anche a Venezia. Da Venezia arrivano i colori accesi del dipinto e il paesaggio, che risente delle novità fiamminghe che circolavano in laguna. Innovativa è inoltre la posa a tre quarti dell’uomo, che sostituisce quella tradizionale di profilo: i primi in Italia ad adottare questa posa, tipica della ritrattistica del Nord Europa, furono proprio i pittori veneti. Dalla Lombardia, invece, Solario eredita l’attenzione al dato reale: il protagonista del dipinto è un personaggio autentico, non idealizzato: lo testimoniano il ciuffo bianco tra i capelli, le forme non aggraziate, il sorriso ambiguo.

Tra gli elementi di maggior virtuosismo, degna di nota è non solo la resa delle mani, ma anche quella del paesaggio. Per dare l’impressione della vastità della campagna in lontananza, Solario utilizza una varietà di soluzioni: i due alberi laterali incorniciano il volto dell’uomo, mentre dietro la sua spalla destra un piccolo fiume conduce lo sguardo verso un paesaggio montano. Il tono bluastro delle montagne inganna l’occhio; ricorrendo alla tecnica della prospettiva aerea, che il pittore aveva appreso a Milano dalle opere di Leonardo da Vinci, il paesaggio appare lontanissimo.

Interessante è la vicenda collezionistica dell’opera: nell’Ottocento il ritratto si trovava a Genova a villa Mylius; quando i proprietari decisero di venderlo, lo affidarono all’antiquario milanese più scaltro e più celebre dell’epoca: Giuseppe Baslini. Baslini propose l’affare a Julius Meyer, direttore della Gemaldegalerie di Berlino, che all’epoca viaggiava per l’Europa con l’assistente Wilhelm von Bode alla ricerca di opere per il proprio museo. L’antiquario portò il dipinto a Berlino; lì rimase per quindici giorni, durante i quali fu analizzato con attenzione. È Bode nella sua autobiografia, il Mein Leben, a raccontare la vicenda, non senza una nota polemica:

“Meyer studiò il quadro completamente intatto ogni giorno con grossolane lenti di ingrandimento, e cercò di giustificare il rifiuto a se stesso con il fatto che aveva sofferto troppo. Poche settimane dopo Sir William Boxall, che, nonostante i suoi ottant’anni, andò a Milano in pieno inverno, comprò il quadro per 50.000 franchi per la National Gallery, di cui da allora è uno dei principali tesori.”

Dopo lunghe e attente valutazioni, dunque, Meyer aveva deciso di rinunciare all’acquisto, perdendo così una straordinaria occasione. Beneficiaria di questo rifiuto fu la National Gallery di Londra, guidata all’epoca da William Boxall e principale concorrente degli affari del museo tedesco: dal 1875 il dipinto è uno dei capolavori dell’istituzione britannica.

Autrice: Martina Colombi

Gente che par di conoscere

gente che par di conoscere, Michelangelo Merisi, Caravaggio, Deposizione

La Deposizione di Caravaggio in Pinacoteca Vaticana

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio (Milano 1571 – Porto Ercole 1610), Deposizione, 1602-1603, olio su tela, Roma, Pinacoteca Vaticana

Nella Chiesa Nuova alla man dritta c’è del suo nella seconda cappella il Christo morto, che lo vogliono seppellire con alcune figure, a olio lavorato; e questa dicono che sia la miglior opera di lui…

Così Giovanni Baglione racconta la Deposizione di Caravaggio (Giovanni Baglione, Le vite de’ pittori scultori et architetti, Roma 1642, p. 137). È una delle opere più amate dell’artista, soprattutto dai contemporanei, che la consideravano il suo massimo capolavoro. Dipinta tra il 1602 e il 1603, era stata commissionata da Girolamo Vittrice, esponente di una delle famiglie più in vista di Roma, per la chiesa di Santa Maria in Vallicella. Qui rimase fino al 1797, quando i commissari francesi di Napoleone la rubarono e trasferirono a Parigi per esporla al Musée Napoleon: è l’unica opera di Caravaggio portata via dalle chiese di Roma. Fortunatamente venne restituita poco dopo, per poi entrare nella Pinacoteca Vaticana nel 1816.

Il dipinto appartiene agli ultimi anni romani dell’artista. Caravaggio era giunto a Roma nel 1594; inizialmente lavorava dipingendo nature morte e opere decorative e viveva in condizioni economiche precarie. Nel 1597 incontrò il cardinale Francesco Maria Del Monte, che diventò il suo protettore e uno dei suoi più importanti committenti. Grazie a lui, entrò nelle grazie dei cardinali e dell’alta società romana e riuscì ad affermarsi. Nel 1599 ottenne la sua prima commissione pubblica: tre tele dedicate a San Matteo nella cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi. Subito dopo arrivò la richiesta di due pale (Crocifissione di San Pietro, Conversione di San Paolo) per la Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo. Ma Caravaggio non sarebbe rimasto a lungo a Roma: più volte denunciato per il suo carattere turbolento, che lo portava facilmente a insultare, malmenare o minacciare rivali e colleghi, e arrestato per il possesso di armi, nel 1605 si rifugiò per tre settimane a Genova, dopo aver ferito gravemente un notaio in un duello. Il fatto più grave avvenne però il 28 maggio 1606, nel Campo Marzio: a causa di una discussione scoppiata per un fallo commesso durante una partita di pallacorda (una sorta di tennis), l’artista ferì a morte il rivale Ranuccio Tommasoni. Con Ranuccio non contendeva soltanto la partita, ma anche una donna. Condannato alla decapitazione, fu costretto a scappare da Roma: si rifugiò a Napoli, poi a Malta, in Sicilia e di nuovo a Napoli.  Nel 1610 arrivò la notizia che il Papa Paolo V avrebbe revocato la sua condanna a morte. Si preparò così a partire, ma non riuscì mai ad arrivare a Roma: morì durante il viaggio di ritorno, probabilmente per un’infezione intestinale non curata. Era il 1610.

Ma torniamo alla nostra opera

Caravaggio raffigura un momento particolare della Passione di Cristo: non è il Seppellimento, né la Deposizione tradizionale. Il corpo, infatti, non viene calato dalla tomba né tolto dalla croce, ma viene adagiato da Nicodemo e Giovanni sulla Pietra dell’Unzione, detta lapis untionis: un letto marmoreo utilizzato per i riti funerari. L’artista raffigura dunque un rito della tradizione giudaica: il corpo di Cristo, appena disceso dalla croce, verrà spogliato, disteso sulla grande pietra ben visibile per essere lavato, unto, profumato.

Intorno al corpo di Cristo si dispongono la Vergine, Maria Maddalena, Giovanni, Nicodemo e Maria di Cleofa, che alza le braccia e gli occhi al cielo in un gesto di altissima tensione drammatica.

Nicodemo, il giudeo misericordioso che schiodò Gesù dalla croce e lo depose nel sepolcro, è qui presentato con lo sguardo attonito e incredulo. Dietro di lui ci sono i testimoni storici della vicenda: c’è il grido disperato di Maria di Cleofa, che alza le braccia al cielo; c’è Maria Maddalena, che piange sommessamente; c’è Maria, con il volto impietrito dal dolore; c’è Giovanni l’Evangelista, che osserva per l’ultima volta il corpo dell’amico. Il corpo di Cristo è di una bellezza intatta, ma livido: è già evidentemente abitato dalla morte, come dimostra il nero cadaverico della mano abbandonata. Tutti i personaggi non sono idealizzati, ma sono concreti e ordinari: proprio in questa concretezza risiede la vera forza del dipinto di Caravaggio.

Caravaggio è un formidabile innovatore, per due ragioni in particolare

È il primo a usare la luce come disvelamento.
La prima cosa che lo spettatore osserva in questo dipinto è la resa della luce. La scena sembra avvenire nella notte: c’è buio, lo sfondo è indefinito e un fascio di luce illumina i protagonisti della scena. L’effetto è molto drammatico, quasi teatrale (non a caso Giovanni Testori definì Caravaggio lo Shakespeare della pittura nel 1955!).

Ma la vera novità è l’intuizione che rappresentare la realtà così com’è sia la più grande rivoluzione in pittura. In questo senso, per quanto per tutto il Novecento la vita turbolenta di questo personaggio abbia affascinato generazioni di studiosi e abbia fatto sì che fosse considerato un peintre maudit (pittore maledetto), Caravaggio risponde perfettamente alle idee e alle sensibilità più avanzate dell’estetica cristiana del suo tempo. All’inizio del Seicento siamo infatti nel pieno della Controriforma, che invitava gli artisti ad aderire alla lettera alle Scritture e ad attualizzarne il messaggio, così da renderlo a tutti comprensibile. E così è in Caravaggio, che tanto sconvolgeva i suoi contemporanei e che continua a sconvolgere.

Meravigliosa la descrizione che fa di questo dipinto Roberto Longhi, uno dei più importanti storici dell’arte del Novecento:

Portato così vicino a noi, tutto ci torna chiaro, vivido, incombente: straziante nei colori, a bella posta discordi di rosso, verde, arancione; e azzurro marino nella Madonna incravattata come una ‘pleureuse’ medievale, come una ‘monaca di casa’. Gente che par quasi di conoscere …

Roberto Longhi

Autrice: Martina Colombi
Cover Design: Valerio Ichikon Salzano

La figlia del guardiano del castello

L'opera d'arte come atto politico - Parte 6 - La figlia del guardiano del castello

L’opera d’arte come atto politico

“Sei”

1. Giuseppe Molteni, La figlia del guardiano del castello, 1844, Milano, Collezione Litta (dettaglio)

E se un danno a un’opera d’arte diventasse una questione politica? Un fatto così significativo, da convincere il proprietario dell’opera non solo a rifiutarsi di restaurarla, ma addirittura a considerare il guasto un plusvalore?

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Regalateci arte, non mimose!

Cinque pittrici per l’otto marzo

Presupposto di queste brevi presentazioni è un regalo che mi ha fatto un’amica carissima, che si chiama Patrizia. Un dono inaspettato perché spontaneo e non legato ad un’occasione particolare. Graditissimo, in primo luogo perché regalo suo, e poi perché -naturalmente- un libro. Si intitola Le disobbedienti. Storie di sei donne che hanno cambiato l’arte, ed è stato pubblicato da Mondadori nel marzo 2019, esattamente un anno fa. La sua autrice, Elisabetta Rasy, è una giornalista, scrittrice e saggista romana: è riuscita nel difficile compito di dare voce a sei protagoniste della storia dell’arte, profondamente diverse tra loro per ragioni cronologiche e personali. Senza il pensiero e l’intelligenza di Patrizia, il mio contributo avrebbe avuto un sapore diverso.

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Los Caprichos

L'opera d'arte come atto politico 5 - Francisco Goya - Los Caprichos

L’opera d’arte come atto politico

“Cinque”

La sua vita e le sue opere, permeate di inquietudine, sono lo specchio di una crisi. La crisi di chi, vissuto sul crinale di due secoli, percepiva il fallimento di un’epoca storica, ma allo stesso tempo avvertiva l’urgenza di un rinnovamento radicale, nella società come nell’arte. È proprio per questa ragione che Francisco Josè de Goya y Lucientes (1746-1828), o più semplicemente Francisco Goya, è spesso definito l’”ultimo dei grandi maestri” e il “primo dei moderni”.

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Minerva protegge la Pace da Marte

L'opera d'arte come atto politico - quattro - Minerva protegge la Pace da Marte

L’opera d’arte come atto politico

“Quattro”

Pieter Paul Rubens, Minerva protegge la Pace da Marte, 1629-1630, Londra, The National Gallery

Il connubio tra arte e politica trova in Pieter Paul Rubens una delle sue più significative incarnazioni.

La sua abilità, unita all’impegno instancabile – si racconta che lavorasse ogni giorno dalle quattro del mattino alle cinque del pomeriggio! – lo avevano reso un pittore di straordinario successo.

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I pesci grandi mangiano i pesci piccoli

L’opera d’arte come atto politico

“Tre”

Pieter Bruegel il Vecchio, I pesci grandi mangiano i pesci piccoli, 1556, Vienna, Graphische Sammlung Albertina

Un così vasto e bizzarro assortimento di pesci reali e fantastici è quasi impossibile da trovare in un’opera d’arte. Domina la composizione un enorme pesce, che giace abbandonato sulla riva. Dalla sua bocca e dal ventre, che un uomo sta aprendo con l’aiuto di uno spropositato coltello, esce un gran numero di pesciolini. La stessa scena si ripropone, in versione ridotta, in primo piano: su una barca un uomo estrae da un pesce appena pescato un altro pesce più piccolo, sotto lo sguardo attento di un padre e di un figlio. Intorno a loro, sono ancora i pesci i protagonisti: alati, appesi ad un albero oppure dotati di gambe, rendono la composizione curiosa e divertente.  

Ci troviamo di fronte a uno dei più noti e frequentati disegni di Pieter Bruegel il Vecchio (1525/1530-1569), intitolato I pesci grandi mangiano i pesci piccoli, oggi parte della Raccolta di Grafica dell’Albertina a Vienna. L’opera, realizzata nel 1556, costituisce il primo tentativo da parte dell’artista di rappresentare antichi proverbi; ne seguiranno più di cento, per un totale di circa centoventi opere. In questo caso, la scelta è caduta su un antico detto latino, ricavato probabilmente da una raccolta di massime morali, genere all’epoca molto in voga tra gli umanisti. Il messaggio è semplice, e ha una forte connotazione politica: i sovrani vivono alle spalle dei sudditi, come i ricchi commercianti si approfittano delle categorie sociali più deboli. In poche parole: i grandi mangiano i piccoli. 

Il disegno, caratterizzato da linee lunghe e sottili tracciate a penna, è già pensato per diventare incisione: lo testimonia la grande attenzione che l’artista presta ai contrasti, alle variazioni di toni, alle trame, ai dettagli, come se volesse fornire istruzioni precise a chi si occuperà della sua trasposizione per la stampa. 

Pieter van der Heyden (da Pieter Bruegel il Vecchio), I pesci grandi mangiano i pesci piccoli, 1557

Tra i più fedeli esecutori delle invenzioni di Bruegel ci fu Pieter van der Heyden (1525-1569): fu lui a realizzare nel 1557 una fedelissima riproduzione del disegno, a cui aggiunse un’iscrizione, in latino e fiammingo, e la firma di Hieronymus Bosch (1450-1516). Quest’ultima è probabilmente frutto dell’iniziativa dello spregiudicato stampatore Hieronymus Cock (1510 circa-1570), che per vendere più facilmente l’opera decise di ricorrere al nome di un artista più celebre, fingendo che fosse lui l’inventore della composizione.

Pieter Bruegel il Vecchio, Il pittore e il conoscitore, 1565 circa
(probabile autoritratto dell’artista)

Nonostante sia ormai considerato uno dei protagonisti del Rinascimento fiammingo, Pieter Bruegel è un personaggio ancora avvolto nel mistero: non si conoscono infatti né il luogo né la data della sua nascita. Il nome “Peeter Brueghels” compare per la prima volta nel 1551, nell’indice dei membri della Gilda di San Luca, la corporazione di artisti e artigiani di Anversa. L’iscrizione alla gilda avveniva in genere tra i ventuno e i venticinque anni, dunque è probabile che la data di nascita dell’artista sia da collocare tra il 1525 e il 1530. Alcuni studiosi ritengono che un indizio per individuare il luogo natale di Bruegel sia proprio il suo cognome, che farebbe pensare al villaggio di Breughel o a quello di Brogel, rispettivamente a nord e a sud dei Paesi Bassi. Fonte imprescindibile per la ricostruzione della vita dell’artista è la sua biografia fornita nel 1604 da Karel van Mander, il “Giorgio Vasari delle Fiandre”. Formatosi a Bruxelles nella bottega del celebre Pieter Coecke van Aelst, Bruegel riuscì a viaggiare: visitò la Francia e visse in Italia per due anni, dal 1552 al 1554. Rientrato in Olanda, vi rimase fino al 1562; l’anno successivo sposò la figlia del maestro Pieter Coecke van Aelst e si trasferì a Bruxelles, dove visse fino alla morte (1569).  

Pieter Bruegel il Vecchio, I pesci grandi mangiano i pesci piccoli, 1556
(dettaglio)

Il soggiorno italiano (Sicilia, Reggio Calabria, Napoli, Roma, Lombardia) influenzò moltissimo la pittura di Bruegel: lo testimonia anche questo disegno. Se da una parte è evidente l’ispirazione alle opere di Hieronymus Bosch, pittore della follia e delle allucinazioni, dall’altra invece tutta italiana è l’adesione alla realtà. Il risultato è un simbolismo meno spettacolare, che rende più evidente e credibile la riflessione dell’artista sulla meschinità umana.  

Già nel Seicento, alle stampe ricavate da questa immagine furono conferiti riferimenti politici, e molti sono stati nel tempo i tentativi di connettere il disegno a precisi eventi storici. Ad oggi, lo stato degli studi non permette di ricostruire il pensiero politico e religioso dell’artista, le cui opere sono così eccentriche da risultare ambigue e spesso difficili da comprendere. È tuttavia molto probabile che, anche se in modo implicito, l’intenzione di Bruegel fosse quella di riflettere sulla realtà contemporanea. Buona parte della sua produzione, infatti, ha forti contenuti morali, religiosi ed economici, dimostrazione che l’artista era perfettamente cosciente di quanto stesse accadendo intorno a lui: la crescita delle città mercantili, lo strapotere dei mercanti e le conseguenti ingiustizie sociali. Eventi e trasformazioni che permeano tutta la pittura dell’artista, il quale meglio di chiunque altro è riuscito a dare voce alle tradizioni del suo popolo, ma anche alle sue profonde contraddizioni.

Autrice: Martina Colombi
Cover design: Valerio Ichikon

Scienza e Arte (parte 2). La duplice natura della chimica

Come già avete imparato nel precedente articolo, in chimica il work-up si riferisce a una serie di manipolazioni necessarie per isolare e purificare i prodotti di una reazione chimica. Oggi vi parlo più in dettaglio di altre due tecniche facenti parte della stessa serie. L’estrazione di un composto e la purificazione per cromatografia.

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Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo

L’opera d’arte come atto politico

“Uno”

Ambrogio Lorenzetti, Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo, 1338-1339, Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Consiglio dei Nove o della Pace.

L’uomo è un animale politico, dichiara Aristotele in apertura al suo trattato Τὰ πολιτικὰ (Tà politikà, ossia La Politica), dedicato all’amministrazione della polis. Un’affermazione che risale al IV secolo a.C., e che tuttavia è così semplice e lapidaria da risultare ancora oggi stupefacente. Per il celebre filosofo ogni azione umana è, inevitabilmente, un atto politico. Lo stesso vale per le arti, al cui insegnamento egli dedica un intero libro della sua opera:

È chiaro perciò che esiste una forma di educazione nella quale bisogna educare i figli non perché utile né perché necessaria, ma perché liberale e bella […] impareranno il disegno […] perché rende osservatori della bellezza del corpo. Cercare da ogni parte l’utile non s’addice affatto a uomini magnanimi e liberi.

Aristotele, La Politica, Libro VIII

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