RE(ad)MIX – Letture in dissolvenza – Bookset #2

Virginia Woolf, Orlando.

24 Novembre 2020. Piove e c’è il sole. Piove e c’è il sole.

L’autunno si è presentato più nordeuropeo del solito, mascherato come un supereroe decaduto in attesa di qualche vita da salvare, ma le uniche in pericolo sono fuori dalla sua portata.

Quindi ce lo teniamo così come viene e apriamo il frontespizio di oggi, che ci introduce in un mondo beffardo, come il clima. Mi sono chiesto, leggendo questo libro, se Virginia Woolf si sia mai resa conto di stare scrivendo un libro di fantascienza prima che la fantascienza fosse anche solo concepita.

Poi mi sono risposto con una domanda, e cioè “Ma che cavolo di domande fai?”.

È cristallino che la Woolf non avesse idea di cosa fosse la fantascienza, per quanto Mary Shelley e Jules Verne si fossero dati già da fare sul quel fronte, pur senza definirlo.

Quello che era “fanta” ai suoi tempi erano anche altre cose, ad esempio il rapporto dell’individuo con il proprio corpo e di quello con persone dello stesso sesso.

E se da un lato l’appassionato Orlando si ritrova incarnato nei corpi di diverse dame letteralmente da un giorno all’altro, con una certa non chalance spazio-temporale, dall’altro la descrizione della sua scoperta di questi nuovi corpi e dei corpi verso cui si sente attratto precorre tempi che, nonostante tutto, stentano parecchio ad affermarsi.

Se avessi meno rispetto per i libri-oggetti-di-carta avrei ritrovato subito la citazione che per quanto mi riguarda riassume (ma non è detto che debba farlo) lo spirito di quest’opera e se avessi più memoria la ricorderei. Purtroppo non si ha mai abbastanza ciò di cui si ha bisogno, quindi nulla. Per saperne di più leggetevi il libro o cercate le citazioni sul web, che ce ne sono di magnifiche.

Eppure quella non c’è.

D’accordo, comincerò a fare orecchie e a sottolineare a matita, e chi se ne frega del libro se è qualcosa su cui non si può continuare a scrivere.

Ad ogni modo, ci sarebbe ancora tanto bisogno di leggere Virginia Woolf, anche per i lettori e le lettrici di fantascienza.

E da qui, sfumando verso un suo sottogenere tipico dell’antropocene, ovvero il romanzo distopico, è un attimo.

E come raccontare la decadenza di una società se non attraverso gli occhi dei bambini?

William Golding, Il signore delle mosche.

Che fossero tutti maschi, sia chiaro, era una scelta consapevole di Golding, per non complicare troppo l’esperimento narrativo che si era proposto di portare avanti.

Che le cose andassero a finire così, forse non se lo aspettava nemmeno lui, quando ha terminato la stesura de Il signore delle mosche.

La forza bruta assolutista che prende il sopravvento su un buon senso democratico, per quanto sperimentale e forzato a volte, è un finale che non ti aspetti se si parla di fanciulli presumibilmente innocenti. Ma cosa accade quando anche i più docili vengono investiti dai morsi della fame?

È un attimo che ti ritrovi a invadere la Polonia e a gassificare milioni di persone.

Sulla mancanza, il vuoto fisico e morale fanno leva gli scaltri per arrivare, o mantenere, i loro privilegi, il loro potere.

Anche se lo scarto gerarchico che emerge nel libro tra il capo eletto Ralph e il cacciatore impetuoso Jack è al contempo, sottile e “primitivo”, rispondente a bisogni primari, ormai quasi sconosciuti a noi gente del futuro: sopravvivere.

Ma quando usiamo la parola “primitivi” nella sua accezione negativa, viene da chiedersi: se la passavano davvero così male le prime società di Homo Sapiens?

Pierre Clastres, L’anarchia selvaggia.

Peccato che Pierre Clastres, brillante etnologo, già allievo di Levi-Strauss, abbia tragicamente interrotto i suoi studi a riguardo.

Nell’Anarchia selvaggia il falso mito della miseria economica in cui versavano/e versano le (ultime) società pre-statali viene smantellato con dovizia e non è che un aspetto del più ampio discorso che ruota attorno ai concetti di autorità, dominio, disuguaglianza e divisione sociale.

L’idea stessa, dopo Clastres, di “capo” viene minuziosamente analizzata e scardinata dal luogo comune che occupa di persona privilegiata e potente in sé.

Nelle società primitive (e con primitive in questo caso si intende “senza una struttura gerarchica o statale”) colui o colei che era designato a rappresentare la tribù era chi maggiormente ci metteva la faccia, sia in termini di diplomazia che sforzi di approvvigionamento.

Tanto più la gente della tribù viveva in un agio ozioso, compiendo i pochi doveri quotidiani richiesti dall’economia locale (di abbondanza, non di sussistenza come si pensa), più il chief acquisiva prestigio.

Al contrario, si usava tagliare la testa al toro ed eleggere un nuovo capo.

Un sistema democratico in embrione? Forse. I capi-governo contemporanei devono confrontarsi con gruppi sociali molto più numerosi e non riescono non esercitare un potere coercitivo e di controllo per garantire il benessere della maggioranza.

Anche se questo assioma può essere smentito da innumerevoli esempi. Ma ne parleremo in un’altra sede.

Insomma, delle interessanti riflessioni sul potere e sulle sue più comuni e spontanee manifestazioni, dal proprio corpo al corpo sociale nel suo complesso.

Tre libri che si completano e si lasciano leggere e rileggere durante l’ennesimo acquazzone. L’acqua che scorre a rivoli verso il ferroso buio dei tombini, porta con sé i mille pensieri che essi suscitano a ogni pagina. E anche scorrendoli, così, velocemente e a caso, viene voglia di soffermarci ancora e ancora.

Anche se la citazione che cerchi proprio non riesci a ritrovarla.

Bibliografia

  • Virginia Woolf, Orlando, a cura di Tita Rota Sperti, Feltrinelli, 2017.
  • William Golding, Il Signore delle Mosche, trad. di Laura de Palma, Mondadori, 2018.
  • Perre Clastres, L’anarchia selvaggia, a cura di Roberto Marchionatti, Elèuthera, 2017.

Autore: Francesco Di Concilio
a.k.a. Dj Ardin

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