Erano pochi i luoghi ad essere stati risparmiati dal mezca. Ovunque l’aria lo aveva trasportato, la gente era rimasta come intorpidita, la terra arsa, gli animali del tutto assenti.
Non si viveva male, no. Ludmila ricordava. I primi giorni era solo sembrato che si stesse preparando una grande pioggia. Il cielo si era fatto grigio e chiuso e tutti si erano affrettati a riparare la legna, visto che l’inverno non era ancora finito e l’acqua avrebbe inzuppato i ciocchi e sarebbe stato difficile, altrimenti, riscaldarsi. Dopo 48 ore, però, non una goccia era scesa dalle nuvole che intanto si erano trasformate in spesse nubi scure, ingoiando ogni traccia di luce. Era stato allora che suo padre si era zittito e, guardando negli occhi sua madre, l’aveva presa per un braccio portandola in cucina.
A seguire fu solo un via vai di scatole e bagagli, il suo zainetto blu e rosa velocemente riempito con l’orso di pezza e la borraccia, l’auto caricata senza che si pronunciasse parola.
“Dove andiamo, mamma?” – mentre già il palazzo scompariva dietro le loro spalle, Ludmila capì che lì non ci sarebbe più tornata. “Dormi, amore mio.”
Adesso che della terra di prima a lei restava tutto, a molti altri invece poco meno che una memoria, Ludmila non riusciva a darsi pace. Non aveva mai capito cosa fosse davvero successo quel giorno e mezca, impronunciabile nome del disastro, era per lei solo una specie di mostro mangia-luce, che d’un tratto aveva strappato via i colori dal mondo.
I suoi genitori non le avevano mai spiegato di cosa si trattasse, ripetevano solo: “Noi siamo al sicuro, non preoccuparti” – come una cantilena, e quando lei chiedeva di Ernest e di Marion, di nonna Elena e nonno Marcus e delle maestre e degli altri bambini del quartiere, le rispondevano che per loro, purtroppo, non avevano potuto fare nulla e che Dio li avesse in grazia.
Nel 1998 era ormai dato per certo che esistessero due mondi, sebbene entrambi poco sapessero l’uno dell’altro. Le inter-tele-comunicazioni erano rare, difficoltose, e comunque sempre niente di diretto. Si poteva conoscere qualcosa dell’altra parte guardando foto o video che venivano trasmessi su piattaforme chiamate “wallpaper”, la carta da parati della vita.
Così della terra del dopo noi sapevamo che era per lo più desertica, che il cibo era liofilizzato e in scatola e che si mescolava con soluzioni idroalcoliche per essere ingerito, che non c’erano animali, che era bandito il silenzio, che non si vedevano le stelle perché non si vedeva il cielo di notte, che non esistevano più libri e “nemmeno i baci”, diceva la mamma, “nemmeno le carezze e i baci” e mi abbracciava, lasciandomi tracce di saliva sulla faccia sbaciucchiata.
Nel 2005 la separazione era stata data per stabilita e del tutto irrevocabile. Quelli della terra del dopo non erano interessati ad alcuna forma di rivolta, e noi venivamo etichettati come stupidi e selvaggi. I miei genitori si erano arresi e neppure cercavano più di entrare in contatto con i vecchi amici, con i parenti, con i conoscenti più vicini, con quelli che sapevano di mezca prima che mezca arrivasse e mi vietavano di guardare i wallpapers, e mi pregavano di dimenticare.
Nella terra di prima non mi mancava nulla, perché dovevo ostinarmi a pensare al dopo e a quella frattura che si apriva nel mezzo e che, come una gola, come un burrone, poteva soltanto inghiottirmi? “Perché dobbiamo salvarli, papà! Noi dobbiamo!”
“È troppo tardi, Ludmila” – mi rispondeva. Me ne andavo dalla sua vista con la testa china di un cane battuto. Neppure Pulce il dogue se ne era mai andato così alle grida della mamma quando saliva sporco di fango sul divano.
Volevo salvare Ernest e Marion, la nonna Elena e nonno Marcus e Lila e Anna e persino la signora del bar sotto casa, perché da piccola mi regalava i minimars e il ragazzo dell’autofficina all’angolo, che da grande volevo diventasse il mio fidanzato, anche se allora Ernest mi regalava i fiori.
Volevo salvarli ma neppure sapevo da cosa avrei dovuto farlo e, forse, neppure perché.
Io ero al sicuro e mi capitava di pensare, tra un senso di colpa e l’altro (perché io potevo mangiare la pizza cotta nel forno a legna e loro no? Perché ogni mattina io potevo annusare il profumo delle rose e guardare il giallo dei girasoli e respirare l’aria fresca che si poggiava sul naso come un solletico, e loro no? Perché di notte io potevo contare le stelle delle orse e incantarmi cantando alla luna?) – mi capitava di pensare, che a loro non gliene fregava molto della pizza, dei fiori e delle stelle e dell’aria fresca. Nella terra di dopo avevano bar e poi bar e poi bar dove ingollare whiskey e gin tonic, e avevano auto velocissime e tante cose da dirsi!
Noi vivevamo in mezzo al nulla, Pulce era il mio più fedele ascoltatore, i libri e i dischi di mio padre e mia madre erano i miei migliori amici, gli altri della terra di prima, quegli altri che si erano salvati scappando come noi, erano muti compagni di passeggiate e corse in mezzo al verde, erano occhi e più due occhi e più due occhi e ancora di più, insieme ai quali ricevevo il dono di vedere.
Anche per noi c’era stato, in realtà, un dopo mezca, e aveva portato soprattutto il silenzio.
Non che fossimo incapaci o menomati per parlare, solo non ce n’era più bisogno se non per comunicarsi il necessario, il da farsi, neppure la direzione da prendere, tanto a deciderla ci pensava il naso. Eravamo davvero inselvatichiti? eravamo davvero diventati, come dicevano di là, dei selvaggi?
Quando compì ventisei anni feci un sogno. Era il 15 marzo, si appressava l’equinozio, un nuovo ciclo, una nuova vita per il pianeta doppio. La stessa vita? Non avevo dimenticato nessuno della terra di dopo ma non me ne curavo più. Non ci pensavo. Poi mi apparve Ernest. Come fosse stato un fantasma che si sdraiava accanto a me, senza vederlo ne riconobbi l’odore di gelsomino che si portava dietro anche alle elementari. Quella notte due che appartenevano a mondi diversi dormirono nello stesso letto e mi sembrò che fosse giunto il tempo di attraversare il burrone.
L’indomani comunicai la mia decisione ai miei genitori. Ormai oltre la metà dei sessant’anni, Mavi e Tea erano stanchi ma cercarono comunque in tutti i modi di scoraggiarmi. Li implorai di dirmi cosa fosse mezca e di aiutarmi con una mappa a trovare il confine tra i nostri due mondi. Non vollero dirmi niente. Mia madre mi disse solo di portarmi tanta acqua.
Partì a piedi, attraversando i boschi, continuai poi con la bici di Niccolò, che era potenziata da una super batteria a litio. Me la prestò solo perché gli promisi che al ritorno gli avrei portato una bottiglia di Rémy Martin, con quali soldi l’avrei comprata non me lo chiese, ma si fidava di me.
La verità è che il confine ce l’avevo sotto il naso, per questo non poteva esistere mappa che mi ci avrebbe condotto. Il solo fatto di aver deciso di andare nella terra di dopo mi portava nella terra di dopo e, dopo che ebbi salutato Niccolò, al primo girare d’angolo mi imbattei in Ernest.
Incontrarsi fu davvero strano, però. Eravamo ai due lati di una serie di strisce pedonali e quando entrambi ci incamminammo verso il centro, sembrò che il cielo, spaccato a metà, così cupo da un lato e chiarissimo dall’altro, lottasse sulle nostre teste per trovare una strada mediana e fondersi e trovare un nuovo colore. Quando io e Ernest fummo così vicini da poterci toccare, l’aria scintillò. Mi trovai costretta a battere gli occhi, a chiudere le palpebre e quando le riaprì mi sentivo diversa. Guardai subito in alto per vedere che colore ci fosse ora sulle nostre teste, impaziente di trovare l’azzurro. Era nero e chiuso. Di fronte invece, dove si trovava Ernest, c’era tanta luce. Avevo sete.
Presi la direzione da cui prima era arrivato lui e lui si volse per andare a casa mia. Ci salutammo allungando la mano sul braccio, “devo comprare del Rémy Martin” gli dissi – “Vai al bar 4get e digli che ti mando io.” Ciao Ernest! Ciao Ludmila! Tanto il confine lo abbiamo trovato…ci rivedremo!?!
Continua…
Autrice: Francesca Schiavo Rappo