Collo taurino, sguardo sicuro, mani vigorose. Il portamento fiero, di chi è consapevole di essere importante, e l’abito rosso fanno pensare che questo personaggio sia un magistrato veneziano. Il berretto e la stola, ossia la striscia di tessuto nero sul petto, erano infatti utilizzati in laguna per indicare maturità e importanza ed erano indossati dai togati della Serenissima. L’austerità e l’imponenza dell’uomo contrastano nettamente con il fiore che egli tiene tra le mani, con un gesto quasi impacciato: un piccolo garofano rosa, che funziona come un ossimoro e ha il potere di addolcire e intenerire una figura così severa.
In realtà, questo fiore è portatore di un valore simbolico.
Tra Quattro e Cinquecento era consuetudine che, nel giorno del matrimonio, le spose nascondessero nel proprio abito un fiore e gli sposi dovessero trovarlo. Il dipinto alluderebbe dunque a questa occasione, a cui fa riferimento anche il grande anello blu e oro che l’uomo porta al pollice sinistro. È dunque probabile che il personaggio ritratto avesse voluto fissare, commissionando l’opera, un momento molto importante per la sua vita.
L’autore del dipinto, Andrea Solario, era originario di Milano, ma aveva lavorato anche a Venezia. Da Venezia arrivano i colori accesi del dipinto e il paesaggio, che risente delle novità fiamminghe che circolavano in laguna. Innovativa è inoltre la posa a tre quarti dell’uomo, che sostituisce quella tradizionale di profilo: i primi in Italia ad adottare questa posa, tipica della ritrattistica del Nord Europa, furono proprio i pittori veneti. Dalla Lombardia, invece, Solario eredita l’attenzione al dato reale: il protagonista del dipinto è un personaggio autentico, non idealizzato: lo testimoniano il ciuffo bianco tra i capelli, le forme non aggraziate, il sorriso ambiguo.
Tra gli elementi di maggior virtuosismo, degna di nota è non solo la resa delle mani, ma anche quella del paesaggio. Per dare l’impressione della vastità della campagna in lontananza, Solario utilizza una varietà di soluzioni: i due alberi laterali incorniciano il volto dell’uomo, mentre dietro la sua spalla destra un piccolo fiume conduce lo sguardo verso un paesaggio montano. Il tono bluastro delle montagne inganna l’occhio; ricorrendo alla tecnica della prospettiva aerea, che il pittore aveva appreso a Milano dalle opere di Leonardo da Vinci, il paesaggio appare lontanissimo.
Interessante è la vicenda collezionistica dell’opera: nell’Ottocento il ritratto si trovava a Genova a villa Mylius; quando i proprietari decisero di venderlo, lo affidarono all’antiquario milanese più scaltro e più celebre dell’epoca: Giuseppe Baslini. Baslini propose l’affare a Julius Meyer, direttore della Gemaldegalerie di Berlino, che all’epoca viaggiava per l’Europa con l’assistente Wilhelm von Bode alla ricerca di opere per il proprio museo. L’antiquario portò il dipinto a Berlino; lì rimase per quindici giorni, durante i quali fu analizzato con attenzione. È Bode nella sua autobiografia, il Mein Leben, a raccontare la vicenda, non senza una nota polemica:
“Meyer studiò il quadro completamente intatto ogni giorno con grossolane lenti di ingrandimento, e cercò di giustificare il rifiuto a se stesso con il fatto che aveva sofferto troppo. Poche settimane dopo Sir William Boxall, che, nonostante i suoi ottant’anni, andò a Milano in pieno inverno, comprò il quadro per 50.000 franchi per la National Gallery, di cui da allora è uno dei principali tesori.”
Dopo lunghe e attente valutazioni, dunque, Meyer aveva deciso di rinunciare all’acquisto, perdendo così una straordinaria occasione. Beneficiaria di questo rifiuto fu la National Gallery di Londra, guidata all’epoca da William Boxall e principale concorrente degli affari del museo tedesco: dal 1875 il dipinto è uno dei capolavori dell’istituzione britannica.
Autrice: Martina Colombi