Ingenue riflessioni sotto forma di domande
In odore di apocalisse ambientale, ma in realtà da quando questa era solo un presagio di Cassandra, i termini e le espressioni legate a una tendenza naturalista e salutista sono entrati nel linguaggio comune: “Biologico”, “sostenibile” o “naturale” tra quelli più noti.
Da par suo, l’impianto produttivo e commerciale non poteva restare a guardare di fronte alle nuove conquiste del senso comune e ha farcito di sigle climate-friendly le sue merci e i relativi annunci pubblicitari. Va da sé che anche il jet-set politico si è dovuto adeguare introducendo nelle proposte elettorali e nei comizi locuzioni come “sviluppo sostenibile” o “politica verde”, accanto ai grandi classici come “progresso”, “crescita” e “PIL”.
Esistono veri e propri partiti, in tutta Europa, che si rifanno al salutare e speranzoso colore delle foglie.
Ma a parte questo, per il resto ci troviamo di fronte a una profonda contraddizione: da un lato, la presa di coscienza dell’imminente pericolo e, dall’altro, il suo presunto scongiuro. Sostenibilità e progresso, sviluppo e clima. Le parole sembrano intonarsi bene, tuttavia portano con sé un filo d’ombra che manca di soddisfare a pieno le nostre riserve: come può il progresso, la produzione industriale e alimentare, la crescita convivere con la sostenibilità ambientale e sociale?
Specie consideranso che ogni anno si esauriscono le fonti disponibili sempre prima rispetto alla notte di san Silvestro successiva, e si innalzano polveroni di malcontento diffusi un po’ in tutti i continenti. Qualcosa, ci perdonerete l’innocenza, non torna.
Il punto è questo: se dobbiamo crescere per stare meglio, come pare si debba fare, è possibile crescere all’infinito? Tutti i paesi della Terra? Senza che nessuno ci rimetta? Qualcuno ha mai vinto la finale di un qualsiasi sport senza che qualcun altro la perdesse?
Nel caso dello sport, la cosa è innocua, o dovrebbe esserlo. Ma per quanto riguarda la società e quella cosa che se la tiene stretta a braccetto, cioè l’economia, cosa succede a chi perde la finale? Insomma, se il nostro PIL sale, e sale, e sale e ci rende tutti più ricchi e paffuti, da qualche parte dovrà pur scendere. Per vendere c’è bisogno di qualcuno che compri, per produrre c’è bisogno di qualcuno che consumi, per vincere c’è bisogno che qualcuno perda, appunto.
E’ così che, la documentazione in proposito si spreca, si è svolta l’economia globale dalla rivoluzione industriale fino ad oggi, con qualche bolla esplosa nel mezzo, qualche milione di morti e risorse distribuite come le carte da un croupier bendato e legato al buio.
Per questo motivo potrebbe apparire quanto meno strano accostare il concetto di sviluppo accanto a quello di sostenibilità, ovvero continuare a “crescere”, appunto, ma senza pesare sull’ambiente.
E’ davvero possibile una cosa del genere?
Mai scontato, per cominciare, rimandare a tutta la bibliografia prodotta sull’argomento a partire dagli studi e considerazioni di Serge Latouche, che qualche movimento ha anche timidamente adottato nella propria agenda, riguardo la decrescita felice (o serena), il quale parte dalla risposta alla nostra domanda, che è no.
Ma per restare in ambiti a noi più familiari, perché direttamente visibili e intimi, ci chiediamo come si riflette la tendenza alla produzione, alla crescita, al traguardo o alla vittoria sugli individui, sulle persone?
Cosa siamo noi, in un mondo in continuo e necessario progresso economico?
Volendo rimanere nell’atteggiamento naif delle domande, ci piace ipotizzare che l’essere umano sia rimasto incastrato nello stesso sistema che ha creato ed il modo migliore che è riuscito a trovare finora per viverci è viverci a ogni costo. Cercando, al massimo, di limitare i danni, quando la coscienza dei danni colpisce le personalità più sensibili, ma niente di più e, soprattutto, niente di meno.
Quando siamo sopraffatti da lavoro, città, vita, stress vari ed eventuali, cosa ci viene detto con una buona dose di sufficienza? Rallenta, vai piano, take it easy. E può succedere che in alcuni casi funzioni pure.
Quando a essere stressato ed esasperato è un intero pianeta, perché non dovrebbe essere lo stesso? Rallentare la produzione, ridurre la frenesia, rendersi conto che ciò che serve potrebbe trovarsi a portata di mano e non necessariamente sullo scaffale di un grande magazzino. Pensiamo, o siamo stati indotti e indotte a pensare che non c’è abbastanza spazio, tempo, risorse per chiunque. I vincoli economici e contrattuali che stipuliamo ci costringono a mantenere un certo ritmo, che spesso ci ostiniamo a definire “stile di vita”, ma è paragonabile alla tachicardia: qualcosa che è vitale, come il battito del cuore, ma esagerato, che rischia di farcelo esplodere.
“Impossibile“, sostiene qualcuno, rallentare le dinamiche economiche senza una frenata brusca, una rivolta sanguinosa o una rivoluzione. Può essere, ma se quella lotta non è accompagnata da una trasformazione interiore, allora anche la più nobile delle rivoluzioni rischia di limitarsi a un semplice giro intorno al sole.
E di nuovo punto e a capo.
Solo un anno nuovo, e a nuove domande in cerca di una risposta.