Giovedì – 04.2019

Ero alla fermata dell’autobus ad aspettare il treno, e già qualcosa sembrava non andare per il verso giusto.

Poi un vecchietto dall’aria vacua e dal viso lunare mi chiese:

– Che giorno è oggi?

Giovedì – risposi.

– Grazie – disse lui.

Era una domanda semplice, per questo mi colse un po’ alla sprovvista. Provate a chiedervi a bruciapelo che giorno è oggi e ditemi se non vi sorprendete un po’, come se vi avessero chiesto il vostro scopo nel mondo.

– Che giorno è oggi? – chiese di nuovo il vecchio.

– Sempre Giovedì – risposi io.

– Grazie – concluse il vecchio.

Il treno non passava. Non che avesse il dovere di farlo, ma almeno avvisare, telefonare per un saluto, che so.

– Scusa, che giorno sarebbe oggi? – chiese il vecchio preoccupato.

– Giovedì – risposi come se fosse la prima volta che sentivo quella domanda.

– Grazie – continuò il vecchio – sai, ho ottantacinque anni, alla mia età ci si dimentica… Giovedì hai detto?

– Certo, Giovedì – confermai, contento di aver trovato, almeno per quel giorno, un ruolo preciso nel mondo.

– Senti non è che avresti una penna? – mi domanda il vecchio all’improvviso.

Certo che ho una penna. Forse mi sbagliavo, forse avevo un’altra missione: porgere le penne a chi ne avesse bisogno.

Frugai nel marsupio con un occhio alla strada per controllare il treno in arrivo, ma niente. Mi sarei accontentato anche dell’autobus, a quel punto. Il vecchio la prese e srotolò un foglietto accartocciato che aveva in tasca.

– Giovedì hai detto? – chiese, prima di scriverlo accuratamente sul foglietto. Lo stirò col mignolo, lo lesse con attenzione e ripeté a occhi chiusi per impararlo a memoria: – Giovedì.

Quindi mi ringraziò e mi riconsegnò la penna.

Dal fondo della via uno scatolone quadrato si avvicinava sbuffando e rimbalzando su delle molle invisibili. Aveva di certo preso il manto stradale per un materasso.

Ma non era il treno.

Era l’autobus e c’era da accontentarsi.

– Lei non lo prende? – chiesi al vecchietto che se ne stava di nuovo seduto alla fermata a fissare il vuoto.

– No, no – rispose – io abito qui vicino. È solo che a volte non ricordo…

– Non si preoccupi – dissi io in tono da salvatore dell’umanità – adesso ce l’ha scritto – e feci segno verso la sua mano chiusa a pugno.

– Giusto! – s’illuminò il vecchio, che riaprì il foglietto, lo lesse per bene e disse: – Giovedì!

– Bene, arrivederci – feci io cercando di fermare l’autobus con un mignolo.

– Grazie – disse il vecchio mentre aspettavo il rimbalzo giusto per salire a bordo – Giovedì – concluse.

– Ma le pare – dissi io alle porte dell’autobus che si erano richiuse tentando di affettarmi il naso.

In posizione da surfista, impettito e fiero per la buona azione appena compiuta, rimbalzavo insieme all’autobus verso la mia fermata, qualche centinaio di metri più in là.

Riflettevo sulla memoria. A Quando la perdi. A cosa diventi, quando la perdi?

Per fortuna abbiamo questa cosa della trasmissione. I vecchi ci ricordano ciò che sono stati e noi gli ricordiamo che giorno è oggi, e la storia va avanti, di lato, in diagonale, insomma prosegue.

Per fortuna che a portarla avanti ci siamo noi.

Anche l’autobus sembrava d’accordo da come scodinzolava al semaforo.

Tuttavia una leggera foschia si andava addensando attorno al palo a cui mi reggevo con destrezza da pole dancer, e non era la sigaretta elettronica del ragazzo dietro di me, o le orecchie fumanti della signora arrabbiata con le buste della spesa.

Cercai il vecchio con lo sguardo, ma sia lui che la fermata erano rimasti indietro.

Mi guardai attorno, sempre più inquieto. Avevo il fiatone e non per il fumo.

Era un dubbio.

La campanella di prenotazione della fermata suonò e due boxeures cominciarono a combattere sul fondo dell’autobus, mentre guardavo in giro in preda al panico che montava.

Accanto al finestrino vidi una ragazzina dal collo di giraffa, con la testa risucchiata dal telefono e gli auricolari infilzati nelle orecchie.

Saltando da una maniglia di sicurezza all’altra come Tarzan, a fatica mi avvicinai, mentre la vettura sfiatava da tutti i lati.

Raggiunsi la ragazzina e le strappai gli auricolari dalle orecchie. Quella alzò il collo da giraffa e mi guardò spaventata, non so se per me o per i suoni del mondo che sentiva per la prima volta.

– Scusami… non volevo… – riuscii a stento a biascicare.

La voce era strozzata, la mano mi tremava, ansimavo più degli ammortizzatori dell’autobus. Guardai la ragazzina dritto negli occhi e le domandai:

– Sai dirmi che giorno è oggi?

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