L’opera d’arte come atto politico
“Due”
Piero della Francesca, Doppio ritratto dei duchi di Urbino, 1474 circa, Firenze, Galleria degli Uffizi

Forse non sono una delle più belle coppie della storia dell’arte, ma una delle più celebri sicuramente sì. D’altra parte, la loro immagine è sopravvissuta nei secoli grazie al pennello di uno dei più geniali maestri del Rinascimento italiano: Piero della Francesca.
Formatosi a Firenze nella bottega del celebre Domenico Veneziano, Piero era nato a Borgo San Sepolcro, località di confine tra Toscana, Umbria e Marche, nel 1416; fu un pittore amatissimo dai contemporanei e venne chiamato a lavorare presso le più importanti signorie italiane del suo tempo. Divenuto celebre per le sue opere raffinatissime, che uniscono alla rigida geometria delle prospettive un efficace studio della luce, questo artista è indimenticabile anche per la sua data di morte: 12 ottobre 1492, giorno della scoperta dell’America.
Il legame con la città di Urbino, al quale risale il dittico preso in considerazione in questo articolo, è il più significativo della sua carriera: qui era stato invitato ripetutamente dal duca Federico da Montefeltro, uomo di cultura e mecenate, che aveva trasformato la sua corte in un vero e proprio centro culturale e artistico, convocando le menti più illustri dell’epoca: pittori, scultori, architetti, letterati, filosofi e scienziati.
Il rapporto di stima e riconoscenza che si instaurò tra l’artista e i duchi di Montefeltro trova in questo doppio ritratto un’importante testimonianza. Curiose sono le dimensioni delle tavole, che attestano l’attenzione profonda di Piero per la matematica, stimolata dai soggiorni urbinati: la loro proporzione è infatti il risultato della proiezione della diagonale di un quadrato. I coniugi sono raffigurati di profilo, affrontati; l’artista non studia e non rappresenta le loro emozioni, ma indaga con precisione le fisionomie dei volti, che restituisce con grande fedeltà.
A destra appare Federico da Montefeltro (1422-1482), autorevole e fiero. Il duca indossa un abito e un copricapo di colore rosso. Molto realistici sono i folti capelli scuri, le piccole rughe e il naso adunco, che egli si era procurato durante un torneo, insieme ad una cicatrice sull’occhio destro: ragione per cui chiese di essere ritratto dal profilo sinistro. Il suo incarnato abbronzato contrasta con il pallore, quasi lunare, dell’elegante Battista Sforza (1446-1472), che, secondo alcuni studiosi, alluderebbe alla precoce scomparsa della donna, morta a soli ventisette anni dopo aver dato alla luce Guidobaldo.
La donna rispecchia perfettamente l’ideale di bellezza femminile rinascimentale: collo lungo, capelli biondi, fronte alta (che spesso le donne ottenevano radendosi l’attaccatura dei capelli) e pelle bianchissima. La sua complessa acconciatura e il suo corpo sono impreziositi da tessuti, perle e gemme. Nonostante le tavolette siano separate, l’unità spaziale è garantita dallo sfondo: un lussureggiante paesaggio collinare che testimonia la forte influenza esercitata nell’arte di Piero dalla pittura fiamminga, che egli conosce da vicino proprio a Urbino, dove aveva lavorato il pittore Giusto di Gand: da essa eredita lo studio della luce e l’attenzione al dettaglio.
La datazione del dittico, per molto tempo oggetto di discussione, oggi sembrerebbe confermata intorno al 1474: lo testimonierebbero il ritratto di Battista, evidentemente post mortem, e il titolo di duca di Federico, ottenuto proprio in quell’anno. Da Urbino, più precisamente dalla Sala delle Udienze di Palazzo Ducale, l’opera entrò successivamente nella collezione dei Della Rovere, eredi e successori dei Montefeltro; l’ultima discendente della famiglia, Vittoria, sposò Ferdinando II de’ Medici, granduca di Toscana. Da quel momento il dittico fu conservato a Firenze, dove ancora oggi si può ammirare.
Conservate oggi in una cornice neorinascimentale, in origine le due tavolette, di piccole dimensioni (cm 47 x 66) erano unite da una cerniera, e potevano essere aperte e chiuse, come se fossero un libro. Secondo molti studiosi sarebbero da considerare, per le ridotte dimensioni, un’opera privata, forse un omaggio da parte di Federico alla moglie Battista; tuttavia, il verso delle tavole, dipinto con lo stesso impegno del recto, sembrerebbe testimoniare qualcosa di molto diverso.
Sul retro di ciascun ritratto, infatti, i duchi sono raffigurati su un carro in un paesaggio di evidente derivazione fiamminga, accompagnati da figure allegoriche e da un’iscrizione celebrativa in latino, che celebra le loro virtù morali.
Il carro di Federico, trainato da due cavalli bianchi, ospita nella parte anteriore le quattro Virtù cardinali (Prudenza, Fortezza, Giustizia e Temperanza); il duca indossa una lucentissima armatura ed è incoronato da una Vittoria alata. Battista, invece, appare immersa nella lettura; è accompagnata dalle tre Virtù Teologali (Fede, Speranza e Carità) ed è trainata da due liocorni, animali che simboleggiano la castità. Le due rappresentazioni riprendono, in chiave simbolica, un’iconografia antichissima, le cui origini affondano nella Roma classica: quella del trionfo, cerimonia con la quale venivano celebrati i generali che avevano riportato una vittoria importante.
Accompagnare il ritratto di Federico con un Trionfo della Fama e quello di Battista Sforza con un Trionfo della Pudicizia non era soltanto un omaggio all’antico, in pieno spirito umanista, ma diventava anche un efficace strumento di propaganda politica del duca, che così veniva presentato non solo come un uomo di cultura, ma anche come un personaggio degno di nota per le proprie virtù morali. Anche la scelta di raffigurare i due personaggi di profilo non è casuale, ma viene dalla numismatica antica: così venivano ritratti consoli, imperatori e condottieri sulle monete e sulle medaglie.
Un’opera piccola, che si poteva chiudere come un libro, ma carica di contenuti e di grande efficacia: poteva dunque essere nata per rimanere nascosta? Oppure, più probabilmente, per essere portata dal duca con sé e mostrata a conoscenti, amici, personaggi importanti? A voi, lettori erranti, la libertà di giudicare e, soprattutto, di immaginare.
Autrice: Martina Colombi