Se ti sei perso la seconda parte ecco dove puoi trovarla #13.3 Note a Margine – Introduzione all’album.
DISCLAIMER
L’intera produzione di Fabrizio De André pone un forte accento sul testo e sulla scelta oculata delle parole da utilizzare. Un ascolto superficiale sarebbe inutile e totalmente non produttivo. I nostri sono solo degli spunti di riflessione sulle tematiche proposte in ogni brano. Vi invitiamo a fare vostro ogni brano, ascoltandolo più e più volte, cercando di immedesimarvi in ogni personaggio, al fine di provare i suoi stessi sentimenti e sensazioni. Siamo convinti, infatti, che solo in questo modo è possibile comprendere a pieno l’opera di questo immenso Artista.
Il ciclo dell’invidia
L’album Non al denaro non all’amore né al cielo fu pubblicato nel 1971 per l’etichetta Produttori Associati; gli arrangiamenti furono firmati da Nicola Piovani, e molti dei musicisti che parteciparono alla registrazione dell’album facevano parte dell’orchestra di Ennio Morricone.
All’interno di questo lavoro, composto da 8 brani introdotti da La collina, è possibile rintracciare due macrogruppi tematici: infatti, i primi quattro sono incentrati sulla tematica dell’invidia, mentre le restanti quattro hanno come fil rouge la scienza.
Oggi vi presentiamo il primo macrogruppo, di cui fanno parte La collina, Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore.
La collina
“La collina” oltre ad essere il primo brano dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo è anche la prima poesia dell’Antologia, e non si discosta molto dal testo originale di E. L. Masters.
La canzone ci conduce per mano lungo i viali del cimitero, ci dona curiosità verso quei morti, ma soprattutto ci dà la possibilità di guardare a quegli stessi morti con pietas cristiana, trasformandoci, forse, in persone colpevoli di essere ancora in vita e di non aver dato, con i nostri gesti e parole, riscatto a quelle persone morte sul lavoro, in guerra, per aborto.[1]
La forza del brano, come ogni testo di De André, è quello di saper raccontare con poche parole, scelte accuratamente e non a caso, la storia di ogni morto: si parla allora di morti sul lavoro (Ermen, Charlie), delle condizioni delle prigioni (Tom), di violenza sulle donne (Ket, Maggie), di aborti clandestini (Ella), di morti per tumore (Edith), di emigranti morti lontano da casa (Lizzie).
Ma i versi più forti De Andrè li riserva per condannare la guerra ed i suoi innumerevoli ed ingiustificati morti, e sembra quasi di sentire il pianto straziante e disperato di chi sa bene che un proprio caro dorme sulla collina, con un corpo dilaniato ed insieme ad una bandiera che, di fronte alla morte, non ha più nessun significato né ruolo, se non quello di cercare di tenere insieme, in un tentativo disperato che possa discolpare i generali, dei brandelli di carne:
Dove sono i generali
Che si fregiarono nelle battaglie
Con cimiteri di croci sul petto?
Dove i figli della guerra,
Partiti per un ideale,
Per una truffa, per un amore finito male?
Hanno rimandato a casa
Le loro spoglie nelle bandiere
Legate strette, perché sembrassero intere.
Per tutto il brano si parla di morti premature; l’unico personaggio che invece sembra morire di vecchiaia è Jones il suonatore, a cui fanno riferimento gli ultimi versi de La collina e con cui si chiude tutto l’album. Fanno riferimento al suo distacco da alcuni sentimenti terreni i versi che danno il titolo all’intero album:
Lui che offrì la faccia al vento,
La gola al vino, e mai un pensiero
Non al denaro, non all’amore né al cielo.
Il brano si chiude richiamando le note iniziali del brano, che sembrano uscire da un film con GianMaria Volontè e musicato da Ennio Morricone.
Tutti, su quella collina, diventano uguali, ed il verso principale “…dormono, dormono, sulla collina…” richiama immediatamente la poesia di Totò “’A Livella”, dove un ricco si lamenta di essere stato seppellito accanto ad un povero pezzente, ma alla fine quest’ultimo gli dice che, di fronte alla morte, tutti diventano uguali, e che quindi “…‘A morte ‘o ssaje ched’e”…. è una livella.”
Un matto
Il nome di quello che De André chiama semplicemente Un matto è Frank Drummer.
Dal punto di vista musicale, la tonalità maggiore del brano e la sua aria allegra rispecchia il carattere e la spensieratezza tipiche dello scemo del villaggio.
Forse non si tratta nemmeno di un matto, ma di una persona che, forse impacciata, forse ignorante, non riesce a trovare le parole per comunicare, per esprimere tutto quello che vorrebbe dire.
Potrebbe essere una situazione simile a quella che provano tutte le persone che si trovano a vivere non nel posto dove sono nati, e dove magari si parla una lingua diversa da quella con la quale loro avevano pronunciato le loro prime parole.
Questa incapacità di esprimersi viene allora derisa da tutti.
Ritrovatosi isolato ed emarginato, un matto cerca di farsi notare ed emergere imparando l’enciclopedia a memoria. Deriso da tutti anche dopo la sua scomparsa, muore in manicomio, da solo, ma è proprio attraverso la morte che il matto riesce ad essere libero, acquisendo la libertà di dire ciò che vuole, con le parole che vuole, senza temere più il giudizio altrui. [2]
La morte ha dato libertà ad una persona che si sentiva imprigionata, sola, emarginata, e che da morta può inventare parole e dare voce e colore al proprio mondo interiore.
Un giudice
De Andrè descrive Selah Lively come Un giudice rancoroso e vendicativo.
La vendetta per gli scherni subiti per i propri difetti fisici è al centro di questo brano.
Il ritmo incalzante esprime in pieno il senso di frustrazione di questo personaggio.
La sua vendetta verso chi si burlava di lui per la sua bassa statura si esplica dapprima con un riscatto sociale, dato che attraverso lo studio un giudice riesce ad acquisire una posizione sociale di rispetto; successivamente quella stessa posizione di rispetto si trasforma in arma di vendetta perché conferisce la possibilità di disporre, secondo la propria voglia e la propria coscienza, della vita degli altri.
Non si parla di un giudice imparziale, ma di una persona che abusa del proprio potere per fini personali.[3]
Alla fine ad essere oggetto di scherno non è l’aspetto fisico, ma la posizione sociale: chi si prende gioco degli altri lo fa solo perché chi viene deriso è più in basso nella scala sociale, ma quando le cose si invertono, cade il silenzio e lo scherno sparisce.
Un blasfemo
Wendell P. Bloyd è il protagonista di questa canzone.
La religione e l’ateismo sono al centro del brano, che racconta di un uomo arrestato non per qualche crimine commesso e ben definito dalla legge, ma in quanto blasfemo, con un credo che è diverso da quello degli altri.
Nel testo rimane la descrizione originale del risentimento di Dio verso Adamo, che passa attraverso la Vicenda narrata nel libro della Genesi della “mela proibita”, simbolo di tutto ciò che l’uomo non doveva conoscere, secondo il suo creatore. La punizione per l’uomo per aver peccato di presunzione è quella di vivere sulla terra, lontano dal “giardino incantato” dell’Eden, in un mondo privo di illusioni e pieno di contraddizioni generati dallo scontro tra bene e male. [4]
Quando l’uomo ha osato metter in dubbio l’autorità divina, Dio ha usato il suo potere s per fermare la possibile ascesa dell’uomo stesso, per paura che egli potesse equipararsi a Lui stesso. L’ha fermato giocando non ad armi pari, perché si sa che il tempo e le stagioni non sono un’invenzione umana.
La musica del brano è allo stesso tempo bucolica (uso degli strumenti a fiato), raffinata, quasi religiosa (uso dei violini); in particolare, l’uso degli strumenti ad arco ha lo scopo di suscitare in noi sentimenti di compassione e vicinanza al blasfemo. Il brano lascia libero spazio alla musica proprio dopo lo scontro tra uomo e dio, ed offre a chi ascolta un’occasione di riflessione.
“Mi cercarono l’anima a forza di botte” esprime in maniera perfetta la perfidia, la cattiveria e la violenza che possono essere scatenare da chi professa di adempiere al rispetto dell’ordine pubblico.
L’anima è qualcosa di immateriale e materiale allo stesso tempo: non la vediamo, non possiamo toccarla né sentirla, ma sappiamo che c’è, e che raccoglie la nostra parte più intima, nascosta dal nostro corpo e da esso protetta. “Cercare l’anima a forza di botte” significa allora commettere un atto di una violenza inaudita, significa privare l’anima di un individuo della sua ultima protezione; allo stesso tempo, però, sappiamo che l’anima non è un oggetto, quindi non può essere cercato, perciò tutta la violenza esercitata sul blasfemo è doppiamente ingiustificata.
Chi alza la voce, chi canta fuori dal coro, chi osa mettere in dubbio l’autorità viene punito per aver avuto coraggio: è questo il vero crimine commesso dal blasfemo.
Un malato di cuore
Cominciai anche io a sognare insieme a loro, poi l’anima d’improvviso prese il volo.
E L’anima d’improvviso prese il volo, ma non mi sento di sognare con loro.
No, non mi riesce di sognare con loro.
Questo brano chiude il primo gruppo di brani dell’album, opponendosi ai primi tre perché non è un brano negativo e pieno di tensioni.
Il malato di cuore, nonostante la sua condizione lo privi di tante esperienze e possibilità, non ha invidia per gli altri, sfida sé stesso andando oltre le proprie possibilità.
Un malato di cuore può essere interpretato con una chiave di lettura aggiuntiva: chiunque non ha il coraggio di buttarsi nella mischia, di rischiare, di vivere la vita e l’amore a pieno è un malato di cuore, perché frena i propri desideri per semplice paura.
Si tratta di un chiaro invito per l’ascoltatore ad osare, a cercare la felicità tramite il rischio, piuttosto che affidare la propria vita alla razionalità.[5]
Anche la musica invita alla vita, ci suggerisce di aprirci al mondo: a questo scopo vengono introdotti dei vocalizzi di morriconiana memoria.
[1][2][3][4][5] M. Mugnai, California Italian Studies, 6(2), 2016.
Autrice: Annarita N.
Cover design: Ivo Guderzo
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